– …………………" Ma perché mi fai vedere solo cose orrende? Hanno fatto sempre guerre gli uomini? C’è stato un periodo felice in queste valli?
– "Non ne sono certo, ma dicono che qui ci fosse stato un piccolo paradiso terrestre. Ciò che ti racconterò fa parte delle leggende del mondo degli alberi. Questa è antichissima, forse la più antica che noi alberi raccontiamo ai nostri figli, perché narra del tempo in cui anche le piante lottavano tra loro. Si dice che allora noi castagni non potevamo nascere e crescere dove volevamo in queste valli, perché altre piante mettevano su queste terre radici più salde e profonde delle nostre impedendo a noi di attecchire. C’era una valle a noi proibita, dove non potevamo entrare, ma solo osservarla dalle cime dei monti. Ma non solo noi…
La Valle d’Oro
Molti, molti secoli fa, la cima del monte più alto delle valli, il Matajur, era perennemente innevata perché su tutta la terra il clima era più freddo di adesso. Anche il monte era molto più alto di come appare ai nostri occhi e non aveva la sagoma della "Stara Baba", come la chiamano i valligiani, cioè della vecchia donna accovacciata, e la sua cima si stagliava aguzza sullo sfondo delle Prealpi. Ai suoi piedi scorreva il "fiume freddo", dalle acque verdi e limpidissime, ricco di pesce, ma gelato per buona parte dell’anno. Il "fiume freddo" era un grande fiume che proveniva da nord e si dirigeva verso la pianura, arricchendo le acque di altri fiumi, per poi sfociare nel mare. Sulle pendici della "Stara Baba" si trovavano, sparse qua e là, diverse grotte nelle quali gli appartenenti alla tribù dei Moh, che vivevano di caccia e di pastorizia, si rifugiavano durante il loro errare con le greggi. La "Stara Baba" era una madre generosa, perché in quelle valli, completamente ricoperte da boschi, solo ai piedi della sua cima c’erano enormi pascoli che potevano dar nutrimento alle greggi di quella tribù. La natura impediva che sulle parti più alte di quella montagna crescessero gli alberi, così i rari arbusti, assieme all’erba, costituivano un cibo pregiato per capre e pecore. Altri pascoli si trovavano sulle cime delle "montagne fumanti", vicine alla "Stara Baba", ma nessuno osava avvicinarsi a quei luoghi. Nel fondovalle, altre grotte, più grandi, ospitavano perennemente altri appartenenti alla tribù dei Moh che formavano delle piccole comunità.
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Queste crescevano di numero quando la "Stara Baba" diventava cattiva, ed avvolgendosi in un candido mantello, scrollava tutti di dosso, costringendo i pastori e le loro greggi al rientro a valle. Ora su quelle cime, anche per orsi, lupi e cinghiali, era impossibile la vita; anch’essi, per sopravvivere, sarebbero stati costretti a seguire il migrare dei pastori, dove avrebbero potuto predarli o nutrirsi del poco che la natura rendeva disponibile. I cinghiali, più a valle, si sarebbero nutriti di castagne e radici; i lupi avrebbero seguito le greggi e le avrebbero attaccate al momento opportuno; gli orsi sarebbero scesi fino sul corso del "fiume freddo", dalle acque ricche di pesce, dove avrebbero potuto trovare nutrimento. Quell’inverno, a fondovalle, il "fiume freddo" scorreva silenzioso sotto una spessa lastra di ghiaccio che proteggeva i suoi abitanti. Gli orsi camminavano nervosamente su di essa affondando nel ghiaccio i loro artigli. I numerosi crepitii che si udivano quando il sole cominciava timidamente a penetrare in quella valle, davano la sensazione di qualche cedimento imminente della volta ghiacciata, ma non appariva neppure un pertugio che consentisse agli animali di dissetarsi. Solo qualche masso, reso instabile dalla pioggia e dal gelo, precipitando dalle ripide pendici dei monti, riusciva a infrangere i ghiacci del "fiume freddo", consentendo agli orsi di sfamarsi, ma quando questo evento accadeva, il gelo di quell’inverno provvedeva immediatamente a cicatrizzare quelle ferite: anche gli orsi, per sopravvivere, avrebbero dovuto dare la caccia all’uomo ed ai suoi animali. I componenti della tribù dei Moh avevano imparato a conoscere le insidie della natura; avevano fabbricato delle armi rudimentali per cacciare, ma anche per difendersi, perché a volte il nemico era più forte. Quegli uomini avevano capito che potevano difendersi anche dalle belve feroci; avevano notato che queste, più che le armi, temevano il fuoco! Quell’inverno, stretta dalla morsa del freddo e dall’assedio delle fiere, la tribù dei Moh tenne perennemente accesi dei fuochi davanti alle grotte. Quella barriera fumosa proteggeva uomini ed animali. Gli orsi, attanagliati dai morsi della fame, si aggiravano impazienti nei pressi delle greggi stando a dovuta distanza dalle fiamme, nell'attesa che accadesse qualcosa. I componenti della tribù sapevano che, prima o poi, qualcosa sarebbe accaduto, ed osservando il cielo sistemavano le loro armi. Finalmente dal cielo giunse il segnale che gli orsi attendevano: il sole si oscurò, ricoperto da grosse nubi nere, ed iniziò a cadere una forte pioggia. I fuochi in breve divennero piccoli formicai fumanti ed ora solo l’uomo sbarrava la strada agli aggressori, ma di questo non avevano timore. Si diressero verso le greggi dove ad attenderli, in quella che si trasformò per entrambi in una della tante lotte per la sopravvivenza, si trovavano tutti gli uomini della tribù. Tutti parteciparono alla lotta: adulti, vecchi, bambini, donne vecchie e giovani donne incinte. Quella non era una lotta che finiva con una tregua o con una resa, ma con l’annientamento di una o dell’altra parte. Gli uomini, muniti di grossi pali appuntiti, affrontavano, riuniti in gruppi, gli orsi; donne e ragazzi, impugnando torce ricoperte di pece ardente, cercavano di far fuggire i lupi che seguivano gli orsi a breve distanza. Altri gruppi di donne e ragazzi brandivano delle lance di legno e finivano gli animali feriti conficcandole negli occhi e nella gola di questi; altri invece li finivano a sassate. Qualche orso riusciva a sferrare le sue zampate mortali agli aggressori; qualcun altro giaceva a terra esangue. La lotta proseguiva spietatamente e gli animali affamati aggredivano gli uomini con una ferocia inaudita. Il candore della neve cominciava a tingersi di rosso ed il capo tribù, vedendo che il suo popolo stava subendo grosse perdite in quella sfida, ordinò di ritirarsi nelle grotte, dove i fuochi erano rimasti accesi e dove avrebbero potuto difendersi meglio. Quella decisione, purtroppo, significava abbandonare le greggi al loro destino. Fortunatamente, accadde qualcosa d'imprevisto. Un gruppo di pecore impaurite si diede alla fuga abbandonando il gregge; furono proprio queste, che nell’inutile tentativo di salvezza, si immolarono ponendo termine alla lotta. I primi ad inseguirle furono i lupi che attendevano dietro agli orsi l’esito dalla battaglia, poi anche gli orsi abbandonarono la lotta, preferendo un bottino più misero ma sicuro. Alla fine morti e feriti vennero portati all’interno della grotta, accanto al fuoco. Per i feriti non si poté fare nulla all’infuori che attendere la loro morte o la guarigione. Gli animali rimasti furono raggruppati nuovamente e posti al sicuro. Il capotribù salì in cima ad una collinetta ed osservò tutt’attorno cercando le pecore fuggite; osservò le greggi rimaste, che venivano decimate ogni giorno, ed i suoi uomini, che morivano di stenti. Dalla cima della "Stara Baba" scendeva un vento gelido che lo colpiva alle spalle. Alzò lo sguardo rivolgendolo verso la pianura. Pensò che fosse giunto il momento di lasciare quella gelida valle, come ultimo tentativo di salvezza per il suo popolo, dirigendosi verso luoghi meno freddi, come la pianura o la "Valle d’Oro", dove avrebbero potuto svernare. Quella non era una decisione senza rischi, in quanto significava esporre durante il percorso le greggi agli attacchi delle fiere ed abbandonare i più anziani e gli ammalati al loro destino. Se si fossero diretti verso la "Valle d’Oro" probabilmente sarebbero stati ricacciati dai suoi abitanti, come era già accaduto in passato, perché i Moh parlavano una lingua diversa, ma in quel frangente, per salvare il suo popolo, il capo tribù sarebbe stato disposto anche a combattere per conquistare una porzione di territorio e pascoli. Un’altra alternativa sarebbe stata migrare verso la più mite ed ampia pianura, ma anche in quei casi, durante il loro errare, avrebbero subito numerosi attacchi di fiere e predoni, e durante la loro assenza le loro grotte sarebbero state saccheggiate, da altri predoni, di tutti gli oggetti ed attrezzi da lavoro. Il capo tribù dei Moh convocò tutti gli uomini ed insieme presero la decisione: si sarebbero recati nella "Valle d’Oro", molto vicina, così avrebbero portato con sé i vecchi e gli ammalati. La "Valle d’Oro" era quasi adiacente a quella del "fiume freddo"; si doveva raggiungere percorrendo il fondovalle perché le pendici innevate delle montagne impedivano altri percorsi. Si incamminarono trascinando con sé i vecchi, le mandrie ed i pochi oggetti ed attrezzi che possedevano. Dopo alcune ore di cammino la valle diventò più ampia e sulle loro guance iniziò a battere un vento meno freddo. Di tanto in tanto, la neve cedeva il posto a qualche ciuffo d’erba, e le pecore affamate, trovavano, dopo un lungo digiuno, un poco di cibo. Il territorio mutava repentinamente, come il clima, e qualche albero, stranamente verdeggiante, anticipava ai loro occhi increduli, quel paradiso. Piccoli gruppi di animali selvatici vivevano ai margini di quella valle, al riparo dalle trappole e dalle frecce dei suoi cacciatori. Giunti all’imbocco della "Valle d’Oro", notarono le pendici dei monti ricoperte da una rigogliosa vegetazione; in lontananza, all’altro estremo, colonne di fumo bianco e grigio si levavano verso il cielo. Le pendici dei monti erano cosparse da numerosi massi bianchi sparsi qua e là che gli alberi, a volte a stento, trattenevano. Fra i tanti, si notava un masso enorme, situato sulla cima del primo monte all’imbocco della valle. Due grossi castagni ultrasecolari, cresciuti al limite di dove a loro era concesso, lo trattenevano, decidendo per quel precario equilibrio. Dal fondo della valle si sollevavano in continuazione piccole nuvolette di vapore acqueo che un vento gelido provvedeva a dissolvere non appena raggiungevano le cime dei monti circostanti. L’intera tribù osservava in lontananza, stupefatta, quello che ai suoi occhi appariva un mondo nuovo. Si accamparono nei pressi del fiume che usciva dalla "Valle d’Oro" formando una gigantesca cascata; lì avrebbero passato la loro prima notte ed atteso il momento più opportuno per penetrare con discrezione all’interno della valle. Avrebbero chiesto ai suoi abitanti ospitalità per svernare, accontentandosi di pochi pascoli, quanto bastava per poter sopravvivere! Nessuno di essi aveva visto quella valle, molti ne avevano sentito parlare come di qualcosa di meraviglioso, tanto che non tutti credevano alla sua esistenza. Quella notte finalmente il popolo dei Moh riuscì a dormire; nel fondovalle l’inverno era già domato! Tutti poterono nutrirsi: mucche e capre, dopo un abbondante pascolo, tornarono a dare latte per vecchi e bambini. Il giorno seguente il capo tribù, assieme ad un gruppetto di uomini, uscì in avanscoperta e si diresse verso la cima del monte sul quale si trovava il grande masso. Da lì avrebbe potuto osservare l’intera valle. Dopo qualche centinaio di metri di ascensione notò la grande distesa d’acqua fumante; di questa conoscevano l' esistenza, in quanto era visibile anche dalle alture sulle quali erano situati i loro pascoli.
Il gruppetto continuò a salire e a addentrarsi nella valle tra i profumi dei prati, miracolosamente fioriti, e gli alberi colmi di frutti color oro che brillavano sotto i raggi del sole. Il capo tribù staccò un frutto giallo da un albero e provò a dargli un morso. Il frutto era durissimo, ma le sue forti mani riuscirono a schiacciarlo facendone uscire un succo aspro; il capotribù si leccò le mani, ma con un gesto schifato torse la bocca e gettò via il frutto. Non aveva mai assaggiato qualcosa di simile! Molti altri frutti, tutti simili al colore dell’oro, pendevano dagli alberi sempre più numerosi che incontravano lungo il loro cammino. Alcuni erano dolci, altri aspri, ma tutti mai visti prima d’ora. Anche il paesaggio che si stava svelando lentamente ai loro occhi non era stato mai visto così da vicino da alcuno di loro. La gran massa d’acqua fumante ricopriva l’intera valle; una parte di essa s'incuneava in una convalle che terminava ai piedi della "Stara Baba", ma lì quell’acqua era ricoperta di ghiaccio e le montagne di neve. Proseguirono nell’ascensione dirigendosi verso l’enorme masso che sovrastava la cima del monte. Ora si rendevano visibili ampi squarci di fondovalle dai quali provenivano numerosi muggiti di mucche e belati di pecore che pascolavano sui prati verdeggianti, ai bordi della distesa d’acqua. Tutto intorno, centinaia di alberi puntinati di giallo ed arancio diffondevano un profumo che permeava la valle e che nessuno di quegli uomini aveva mai sentito. Anche quelle piccole nuvolette di vapore caldo che, di tanto in tanto, raggiungevano il gruppo in avanscoperta avevano un odore strano. Ogni cosa era nuova e misteriosa in quella valle! Dall’alto riuscivano a distinguere in lontananza le cime delle montagne fumanti; quelle le conoscevano! Erano le montagne maledette che sputavano pietre di fuoco e facevano tremare i pascoli. Il capo tribù osservò, in basso, il suo accampamento: vide un piccolo gregge di pecore e capre, qualche mucca, ed uno sparuto gruppo di uomini. Nulla in confronto alle numerose greggi che ora vedeva pascolare nella "Valle d’Oro". Ai bordi di quel lago poteva osservare ogni specie di animale: capre, pecore, mucche, asini e cavalli ed altri ancora. Pensò che lì i sui uomini avrebbero trovato senz’altro ospitalità, del resto la valle era molto vasta. Avrebbe parlato con il capo di quella gente, avrebbe cercato di farsi capire, di spiegare che il suo popolo veniva in pace; avrebbe offerto qualche animale in cambio di un piccolo pascolo per le sue greggi. Da quella cima riusciva a scorgere anche la sua valle che aveva da poco abbandonato: era ricoperta di neve e gli alberi erano spogli. Il corso del "fiume freddo" era quasi invisibile sotto la sua calotta di ghiaccio e neve. Dirigeva lo sguardo, incredulo, dall’una all’altra valle, cercando di capire il perché di un inferno e di un paradiso. Giunto ai piedi del grande masso posto sulla cima del monte, volle salire su di esso per scrutare fino in fondo a quella valle, oltre la folta vegetazione. Si arrampicò sui castagni e, quando giunse sui loro rami più alti, si trovò all’altezza del masso. Con un gran balzo saltò su di esso. I suoi uomini a terra, impazienti, volevano sapere cosa avesse visto da quella roccia. Salendo, non aveva avuto il tempo di osservare attorno, ma ora osservava stupefatto le valle. Distingueva nitidamente il contorno del lago, che risplendeva sotto i raggi del sole; quell'enorme massa d’acqua s'incuneava in due valli, ma solo una era verdeggiante e rigogliosa; solo una rendeva vividi i raggi del sole, mentre nell’altra, una sottile coltre di neve copriva la distesa di acqua ghiacciata. Diresse lo sguardo verso le montagne fumanti;
sulle loro pendici, sparse qua e là, notava piccole nuvolette di vapore e, più a valle, sgorgavano tre enormi sorgenti di acqua calda che alimentavano e riscaldavano l’acqua del lago. Ora sentiva quell’alito che, spinto dal vento del nord, lo stava riscaldando ed ai suoi occhi si svelava il segreto di quella valle dall’eterna primavera. Pensò che finalmente anche il suo popolo avrebbe trovato la felicità. Se durante la stagione fredda si fossero insediati nei pressi di quel lago, non sarebbero stati attaccati così ferocemente dalle fiere affamate, non sarebbero morti tanti vecchi e bambini, e dopo il disgelo avrebbe potuto salire nuovamente sui pascoli della "Stara Baba" con tanti capi di bestiame e tanti uomini al seguito. La sua sarebbe diventata una tribù numerosa e potente. Stava ancora sognando, ed osservando quella valle beata, quando fu richiamato dalle grida allarmate dei suoi compagni: giù, in basso, la sua tribù veniva attaccata dagli abitanti della "Valle D’ Oro"! I suoi uomini, quasi disarmati, venivano trafitti con le frecce e le lance; vecchi e bambini venivano massacrati con le clave mentre altri uomini della "Valle D’Oro" s’impadronivano dei pochi animali, sospingendoli verso i loro territori. Numerosi altri gruppi provenienti dal lago stavano per aggiungersi agli assalitori. Il capo tribù con un enorme balzo volò sui rami del castagno e, sceso a terra, si precipitò verso il fondovalle per difendere la sua gente, seguito dagli altri uomini. Solo uno del gruppetto dei Moh si fermò, titubante, su quella cima. Nel tentativo di dare manforte ai suoi fratelli, prese delle pietre e cominciò a scagliarle verso il fondovalle, cercando di colpire il nemico che accorreva numeroso. Iniziò ad urlare, sperando di attirare a sé parte degli aggressori. Tutto fu inutile perché il nemico era molto lontano e tra le urla del combattimento nessuno si accorse della sua presenza. Egli, però, riusciva a percepire chiaramente le grida di dolore del suo popolo morente. Fra le tante gli parve di udire anche quella del suo figliolo; solo allora, colto dalla disperazione, si precipitò anch’esso verso valle. Percorse qualche centinaio di metri, ma capì che non avrebbe potuto fare nulla da solo, che sarebbe morto senza colpo ferire. Provava, accanto ad una sensazione di impotenza, tanta rabbia e voglia di vendetta. Tornò nuovamente verso la cima, per compiere un ultimo disperato tentativo. Prese dei rami e dell’erba secca; iniziò freneticamente a sfregare i rami tra di loro finche dall’erba uscì un debole filo di fumo; soffiò con forza tutto il fiato che gli era rimasto nei polmoni in quel concitato andare e tornare. Finalmente dall’erba uscì una fiammella; la coprì trepidante con altra erba secca e foglie che s'incendiarono immediatamente. Prese il tutto con le mani, incurante delle scottature, e lo depose alle basi dei castagni che sorreggevano il grande masso. Ora correva freneticamente, cercando altre foglie e rami secchi per alimentare quel fuoco. In breve, un’enorme colonna di fumo si levò sulla cima di quel monte, passando inosservata tra i contendenti. Dopo breve tempo si levarono alte anche le fiamme, avvolgendo completamente i due castagni. Il calore era tale che al nostro guerriero fu impossibile avvicinarsi per deporre altra legna. I crepitii della legna ardente e delle pietre che esplodevano col calore, coprivano le urla della lotta a fondovalle. Il "Moh" capì che tutto era finito e che egli era rimasto l’unico superstite quando vide gli avversari salire la montagna e dirigersi verso di lui. Sfidando il calore, prese tutta la legna che aveva portato nei pressi del masso e la gettò sul fuoco. Un enorme falò stava avvolgendo i due castagni ed alcuni rami degli alberi cadevano già a terra in fiamme. Il "Moh" iniziò a lanciare addosso al nemico le numerose pietre che ricoprivano il terreno. Si trovava in una posizione privilegiata rispetto all’avversario che proveniva dal basso e le frecce che gli venivano scagliate contro non riuscivano ancora a raggiungerlo. Aveva raccolto attorno a sé numerose pietre, per potersi difendersi meglio. Finalmente riuscì a colpire il nemico, ora che si era avvicinato, e molti caddero nel tentativo di catturarlo. Si difese strenuamente ed a lungo, fino a che fu trafitto al collo da una freccia. Nonostante quella ferita, scagliò ancora molte pietre, ma, alla fine, crollò a terra esangue. Gli abitanti della "Valle d’Oro", esultanti, iniziarono a massacrare il suo corpo colpendolo a sassate. La sete di vendetta per le perdite subite era troppo grande, ed ora la rabbia di tutti trovava sfogo solamente sul suo corpo. Improvvisamente, poco sopra di loro, si udì un rumore secco: era uno dei due castagni che stava crollando divorato dalle fiamme. Lentamente, il grande masso ad essi appoggiato cominciò a scivolare, prima di lato, poi verso valle iniziando a rotolare. Gli uomini della "Valle d’Oro", vedendo che stavano per essere travolti, iniziarono a fuggire, ma tutto fu inutile e repentino. Il grande masso diede sepoltura anche al guerriero "Moh", e, proseguendo nella sua corsa verso valle, abbatté ogni albero e uomo che trovò sul suo cammino, il tutto accompagnato da un potente frastuono che cessò solo quando il masso terminò la sua corsa dirompente nelle acque del lago. Le dimensioni del masso erano tali, come pure la velocità che aveva raggiunto, che l’impatto con le acque fu violentissimo. Si formò una gigantesca onda che spazzò via tutte le capanne costruite lungo i bordi di quella distesa d’acqua, travolgendo uomini ed animali. L’onda si propagò lungo il lago giungendo fino ai piedi delle montagne fumanti, salì verso le pendici dei monti e poi si riversò ancor più dirompente verso valle creando uno squarcio nel terreno che faceva da diga. Attraverso quella falla iniziarono a defluire prepotentemente tutte le acque del lago, erodendo in breve il terreno, trascinando assieme a loro uomini ed animali, travolgendo vittoriosi e sconfitti. Nell’altro ramo del lago l’onda aveva fatto esplodere la lastra di ghiaccio che lo copriva ed ora un’enorme nuvola formata di acqua, ghiaccio e neve, disseminava ovunque quegli elementi. Terminato il deflusso delle acque, molti altri animali che popolavano il lago e che non erano stati trascinati via dall’enorme onda, morirono intrappolati in un mare di fango. Nessuno sopravvisse, né di una né dell’altra tribù. Anche la valle iniziò lentamente a morire. Gli alberi cominciarono a perdere le foglie, ed i fiori ad avvizzire. Gli uccelli e molti altri animali selvatici se ne andarono, cercando un altro luogo dove svernare. Pian piano, il gelo s'impossessò di quella valle, per la prima volta, dopo millenni! L’uomo, che poteva trovare il paradiso su quelle terre, le aveva distrutte!"
"Quello che mi hai raccontato è molto triste", disse Olga, "da allora è passato molto tempo, ma sembra che l’uomo sia rimasto sempre lo stesso. Dimmi che questa è solo una leggenda, che non lottarono mai contro se stesse le nostre genti."
"Certo che si tratta di una leggenda, che ci tramandiamo noi castagni per ricordare il sacrificio di quei due fratelli, arsi dalle fiamme, che poi ci permise di entrare in quella che una volta era la "Valle d’Oro". Però credo che i miei antenati abbiano assistito veramente a quegli eventi, poiché rimane ancora qualcosa che ci fa pensare che siano accaduti. Si dice che le verdi acque del fiume freddo, ricche di pesce, furono ricacciate verso nord dalle barriere di pietre sputate nei millenni seguenti dalle montagne fumanti. Ora, un altro fiume scorre al posto del "fiume freddo" e si chiama Natisone. I resti, ormai consumati del grande masso, si trovano in una gola chiamata "Pijon", proprio dove un tempo uno sbarramento di terreno arginava le acque. Delle sorgenti d’acqua calda, che facevano di quella valle un paradiso, rimane solo un rigagnolo chiamato "Roja", dove i fiori fioriscono anche d’inverno. La discordia tra le due tribù che parlavano lingue diverse e che ha distrutto la "Valle d’Oro", è invece rimasta tutta e sta distruggendo nuovamente queste valli."
"Ma forse quegli uomini combatterono tra loro perché, in quei momenti, si trattava di una questione di sopravvivenza, dell’una o dell’altra parte. Forse gli abitanti della "Valle d’Oro" temevano che i "Moh" sarebbero diventati forti e li avrebbero scacciati da quel luogo."
"Vedi, Olga, Ogni volta che l’uomo preparò una guerra, o si dovettero sacrificare delle persone, si riuscì a dare una valida giustificazione dell’inevitabilità dell’evento; ci fu sempre interesse superiore da difendere, un bene comune che andava salvaguardato; quello che poi sarebbe accaduto sarebbe stato il male minore, perciò cui andava accettato." ..................