(tratto dal racconto: "Il castagno parlante")
… - "Questo significa che siamo senza speranza. Anche il motivo più futile potrebbe diventare
tremendamente importante."
- "Certo! Anche in queste valli, a volte, da un motivo futile si creò una grande discordia."
- " Le tue parole mi fanno rabbrividire."
- "Non sono le mie parole che ti fanno rabbrividire, ma questo vento freddo che soffia e mi spinge a parlare."
- "Olga, indossa questa pelle di montone che ti riscalderà!"
-"Grazie, adesso non sento più il vento, potrò venire con te."
-"No Olga! E’ pericoloso viaggiare di notte. Lungo la strada potremmo incontrare delle bestie feroci, o dei predoni. Preferisco partire da solo."
La strada di cui parlava Matteo, con tutte le sue insidie, era sconosciuta pure a lui. Sapeva che era lunga da percorrere, che avrebbe dovuto camminare giorno e notte, perché era povero e non poteva pagare un pernottamento, ma Matteo era un tipo testardo e spavaldo; nulla al mondo avrebbe fermato una sua decisione, anche se questa era osteggiata da tutti, o quasi…
Tra questi monti, ai tempi delle invasioni dei turchi, costruirono una chiesetta in un luogo chiamato "Bukin", situato in una valle ai piedi del Santuario della Madonna di Castelmonte. I tempi erano tali che non si poté costruire la chiesa al centro di un paesino, o in bella vista su una collinetta, con una stradina che l’avrebbe collegata al villaggio sottostante. Si scelse il luogo più appartato, sicuro e difficile da raggiungere, ed il "Bukin" era veramente lontano da ogni via di comunicazione. In quella chiesetta gli abitanti dei paesi di Merso di Sotto, Picon e Azzida, che l’avevano costruita, pregarono assieme e chiesero a San Silvestro e alla Madonna la protezione contro gli invasori turchi, che razziavano questi paesi, e contro la peste che spesso li seguiva. Cacciati i Turchi e sopravvissuti alla peste, gli abitanti di questi villaggi dimenticarono in fretta le ragioni della loro unione che avevano portato alla costruzione di quella chiesetta. Non che la fede venne meno, anzi, tutti continuarono a frequentare la chiesa con fervore, ringraziando il Santo e la Madonna per le grazie ricevute, però, nella fretta della costruzione non avevano tenuto conto di qualche particolare. La chiesetta era vicina ai paesini di Merso di Sotto e Picon, ma il territorio sul quale era costruita faceva parte di un’altra giurisdizione che non includeva queste frazioni, bensì quella di Azzida. La chiesa era sempre aperta e tutti partecipavano alle sacre funzioni. Allora non c’era il pericolo di furti o atti vandalici, che proprio recentemente quella chiesetta ha dovuto subire, ma il falegname che costruì la porta volle donare al Signore qualcosa di completo, così la dotò anche di una serratura e di una chiave. Povero falegname! Se fosse stato più sbadato o economo avrebbe evitato a queste valli molti problemi. Così, dopo molti anni, qualcuno si chiese a chi spettasse la custodia di quella chiave. Naturalmente quella chiave era solo un simbolo, perché la porta era sempre aperta e la chiave infilata nella toppa, ma quella volta le valli, attorno a quell’oggetto, rischiarono di giocarsi la loro autonomia; e nacque un problema di stato… A ragione gli abitanti di Merso di Sotto e Picon ritenevano la chiesa di loro proprietà, in quanto i più vicini ad essa. Con altrettanta ragione gli abitanti di Azzida si ritenevano i padroni, in quanto la chiesa era costruita sul territorio della giurisdizione da cui dipendevano. Inizialmente la disputa ebbe toni scherzosi, ma si sa, ogni scherzo è bello se dura poco. Quella disputa invece sembrava non voler finire, anche perché, nel frattempo, la chiave sparì ed entrambe le parti si accusarono a vicenda dell’ignobile fatto. Nelle osterie, tra un bicchiere di vino e l’altro, questo discorso affiorava spesso e a volte terminava in lite. Oltre al possesso della chiave, per entrambe le parti si trattava anche di salvare l’onore da un accusa infamante di un atto sacrilego come quello del furto in una chiesa. Fu così che, nell’intento di porre fine a quella questione che si trascinava da mesi e che sembrava ormai irrisolvibile, gli abitanti di Merso di Sotto chiesero giustizia all’autorità competente. Si rivolsero ai membri della Banca di Merso, che aveva la giurisdizione sulle loro frazioni. Questa si riunì e deliberò che: "Considerata la vicinanza dei due paesi alla chiesa ed il fatto che in questa la Messa veniva celebrata dal curato di San Leonardo, che aveva in cura anche le anime dei paesi di Picon e Merso di Sotto, la chiave doveva essere custodita da questi ultimi. Questa decisione fece andare su tutte le furie gli abitanti di Azzida i quali, a loro volta, si rivolsero ai membri della Banca di Antro che aveva la giurisdizione sul territorio del loro paese e su quello dove la chiesetta era costruita. I membri della Banca di Antro diedero ragione agli abitanti di Azzida, motivando la sentenza col fatto che il giudizio della Banca di Merso era invalido, poiché questa non poteva emettere sentenze su un territorio non di sua competenza. In quei tempi, le Banche di Merso e di Antro erano due organi giurisdizionali, riconosciuti come tali dalla Repubblica Veneta. Quando i membri di queste si riunivano, nell'Arengo, legiferavano e giudicavano in piena autonomia da Venezia, che in quei tempi dominava quei territori. Queste erano il simbolo dell’autogoverno e dell’indipendenza delle Valli. Non era mai accaduto prima di allora che i due enti emettessero delle sentenze opposte. Soprattutto non si era mai verificato un conflitto di competenza. Chi aveva il diritto di emettere quella sentenza? Le campane suonarono per convocare l’Arengo. Questo significava che i membri delle due Banche si riunivano congiuntamente. Così fu, e discussero su entrambe le questioni, ma non vennero a capo di nulla, anzi, le posizioni di ciascuno s'irrigidirono. Nel paese di Merso di Sotto, Matteo fremeva. Forte della sentenza della Banca di Merso, aveva fatto costruire a un falegname una nuova serratura con una nuova chiave; aveva già attaccato la slitta ai cavalli e si stava dirigendo verso il "Bukin" per prendere la porta e portarla in paese per le modifiche. Un suo paesano, facente parte del Consiglio della Banca di Merso, vedendolo partire con la slitta e saputo delle sue intenzioni lo fermò e gli disse:
-"Matteo, ho saputo che stai per recarti a prendere la porta della chiesa di San Silvestro per sostituire la serratura"
- "Certo!", rispose Matteo, "è così che voi avete deciso."
- "Abbi pazienza! Ci riuniremo nuovamente e decideremo definitivamente sulla questione."
- "Definitivamente? Ma sono mesi che vi riunite senza prendere una decisione! Anzi, questa sembra ogni giorno più lontana"
- "Vedi, Matteo, la cosa non è semplice come può sembrare. Sono emerse delle cose nuove, mai accadute prima d’ora. Devi pazientare. Alla fine troveremo senz’altro un accordo."
- "Pazientare? Pazientare io? Io non aspetto! Vado a Venezia e faccio decidere al Doge"
- "A Venezia, tu? Ma non hai messo mai piede oltre queste valli! Non sapresti neppure che strada prendere. E poi? Chi ti capirebbe? Non conosci l’italiano né il latino; vesti come uno straccione, e vorresti farti ricevere dal Doge. I poveracci come te li prendono a calci nel sedere a Venezia!"
- "Tu non mi conosci, non sai chi è Matteo!"
- "E’ perché ti conosco che ti parlo. Pazienta ancora un poco, vedrai che troveremo un accordo."
- "Ah! Straccione… a calci in culo… ti farò vedere io, vi farò vedere a voi tutti chi sono!"
Matteo era uomo onesto e di buon cuore, ma più testardo di un mulo. Non conosceva la diplomazia e se decideva qualcosa nessuno riusciva a fargli cambiare idea. Rifletté un attimo sulle ultime parole del paesano, poi, s'incamminò verso il paese vicino dove risiedeva il suo curato. Giunto in canonica chiese alla perpetua di parlare con il curato. Non dovette attendere molto in quanto questi sapeva che era stato Matteo, assieme ai suoi paesani, a portare l’istanza della chiesetta di San Silvestro al giudizio della Banca di Merso, quindi era interessato all’evolversi di quegli eventi. Il curato, sebbene malconcio, appoggiandosi al suo bastone, andò incontro e Matteo il quale, si tolse il capello, lo salutò:
- "Sia lodato Gesù Cristo".
- "Sempre sia lodato", rispose il curato. "Caro Matteo! Quali buone nuove mi porti?"
- "Nessuna buona nuova. Qui non si decidono."
- "Ma che decisione attendi?" gli chiese il curato. "Ti riferisci forse alla chiesa di San Silvestro?"
- "Certo! Proprio alla chiesa!"
Senza neppure chiedere cosa volesse Matteo, il curato lo apostrofò con tono di rimprovero:
- "Non è possibile che dei cristiani si comportino in modo simile!" disse battendo sul pavimento il suo bastone; poi continuò con voce ferma, "Se attendi una decisione, una sentenza, questa la emetto io, ora! La chiesa è di tutti!"
Matteo rimase sorpreso da quell'inaspettata fermezza e presa di posizione che non dava adito ad ulteriori richieste, ma si riprese prontamente:
-"E il furto della chiave?" ribatté irritato, "Accusano noi! E’ una vergogna per tutto il paese!"
-"Dio conosce i colpevoli e al momento opportuno li giudicherà. Devi confidare nella giustizia divina e non in quella umana che, come vedi, é lunga e indecisa."
-"Io la voglio abbreviare! Andrò a Venezia dal Doge. Farò decidere a lui. E’ per questo che sono qui!"
-"Non capisco che cosa centro io con il Doge?" chiese incuriosito il curato.
-"Reverendo, io non so né leggere né scrivere, né tanto meno parlare italiano o latino. Se lei che è uomo di chiesa mi scrivesse due righe, in latino, da poter presentare al Doge, io parto per Venezia oggi stesso."
-"Ma cosa vuoi che scriva? Te lo ripeto! Quella chiesa non ha un padrone, è di tutti!" Matteo comprese che non era quella la via da seguire per ottenere ciò che voleva, così provò a cambiare tattica.
-"Reverendo, ma se la chiesa è di quelli di Azzida, perché venite Voi a fare messa là? Perché venite Voi al nostro paese a prendere la "berarnja" (le decime)."
-"Ciò che offrite non lo date a me, ma alla chiesa. Se la mia mano si protende per ricevere la carità, è il Signore che la muove."
-"Reverendo. Se il tribunale affida la chiesa ad Azzida a chi dovremmo consegnare la "berarnja" (le decime) ?"
-"Ma che discorsi tiri fuori?" disse il curato stizzito.
-"Ha ragione!" proferì una voce da una stanza adiacente. "Se la chiesa sarà di quelli di Azzida, e dirà messa un altro curato, avrà diritto lui alla "berarnja", e, con i tempi che corrono, c’è poco di che scherzare. Si digiuna già così ogni giorno!"
-"Taci tu!" disse il curato, rivolgendosi alla perpetua, "Sappi che il digiuno è la salute dell’anima!"
-"Allora Vi comunico che oggi le nostre anime godranno di ottima salute!" replicò la perpetua.
-"Torna al tuo lavoro in cucina e lasciaci in pace!" chiuse seccato il curato. Nonostante le apparenze, le parole della donna indussero il curato ad abbandonare momentaneamente le esigenze sublimi dell’eternità futura, per concentrarsi su quelle più misere, quotidiane, ed il suo atteggiamento mutò repentinamente: "E tu Matteo, non startene in piedi, siedi! " lo esortò il curato rimettendo in ordine la sua scrivania. "Vedi, non posso esprimere il mio pensiero liberamente, di fronte ad altre persone, e poi, le chiese, sai, sono di tutti; però pensavo al tuo paese che è sempre presente con tutte le sue anime alle messe; anche la Tonina, che ha più di novanta anni non ne perde una. Io vi conosco, uno ad uno, ascolto le vostre confessioni, conosco la vostra fede. Non mi sembra giusto che non abbiate una chiesa tutta vostra."
-"Certo che non è giusto", ribatté Matteo.
-"Vedi", continuò il curato, "la cosa non è semplice come ti può sembrare, sta diventando un affare politico."
-"Ma, signor curato, parlate anche Voi come quelli là, che si riuniscono da mesi e non hanno ancora preso una decisione. Ho capito, Volete mandarci a messa con quelli di Azzida."
-"No, no ...", si corresse prontamente il curato, "volevo solo dire che, ci vuole tatto, circospezione. Prendi questa penna e mordi la punta, tu che hai i denti buoni."
-"Ma signor curato, volete scherzare o mi prendete in giro?" rispose Matteo sbalordito.
-"Mordi, ti dico, poi capirai" insistette il curato.
-"Matteo morsicò la punta della penna, ancora sporca d’inchiostro poi si voltò verso la finestra e sputò in cortile."
-"Ecco perché ho sempre odiato carta e penna", disse Matteo passando il dorso del braccio sulle labbra, "questo inchiostro è nero e aspro come il nostro vino, però è disgustoso."
-"Certo, tu odi carta e penna, ma al bisogno vieni a mettere nei guai il tuo curato."
-"Ma quali guai?" disse Matteo, "anzi, uno di questi giorni Vi manderò mia figlia Olga. Abbiamo appena tirato su una bella covata di conigli. E poi, se parto per Venezia …dicono che in quel porto si trovi ogni ben di Dio."
-"Ma ci vogliono i soldi, e tu sei poveretto", ribatté il curato, "Poveretto ma onesto", si corresse alla fine.
-"Porterò con me due sacchi di castagne, dei rastrelli e delle gerle. Venderò tutto al mercato, anzi …dovrò lasciare qualcosa per il Doge, se vorrò essere ricevuto."
-"Matteo, ascolta il tuo curato, stai facendo una pazzia. Ti metterai nei guai. Comunque ricorda, la pazzia è solo tua, mi comprendi?"
-"Credo di si… o forse no", rispose Matteo sottovoce, timoroso di contrariare il curato che aveva iniziato a scrivere.
-"In questo momento ti sto confessando", disse il curato. Matteo giunse le mani e si inginocchiò.
-"Volevo dirti che ciò che tu mi hai raccontato è una cosa segretissima, che deve restare tra te e me, come in confessione. Il tuo curato non dirà nulla a nessuno e tu pure sarai muto come una tomba. Nessuno rivela i propri peccati. Questa lettera non l’ho scritta io. Ci siamo capiti?"
-"Sì ora comprendo" disse Matteo, "veramente nessuno crederebbe che quella lettera l’abbiate scritta Voi. Sembra la scrittura di un analfabeta."
-"Ma cosa capisci tu, che non sai né leggere né scrivere!" rispose irritato il curato. "Se la punta della penna era rovinata non poteva venire scrittura migliore. Ho dovuto prendere le mie precauzioni. Su ora vai che ho da fare, e, ricorda, non sei mai stato qui! Salutami Olga. E’ una brava bambina. Anzi, se passa di qui, dille che venga pure a trovarmi."
-"Grazie reverendo, non mancherò" disse Matteo congedandosi con un inchino.
-"Matteo!"
-"Che c’è reverendo?"
-"Non tenere la lettera in mano. Nascondila nella giacca fino al tuo arrivo a Venezia."
-"Certo reverendo, certo, sia lodato Gesù Cristo".
Appena uscito dal paese, Matteo prese tra le mani quel pezzo di carta e cominciò a guardarlo girandolo in tutte le maniere possibili. Purtroppo non riusciva a capire niente di cosa fosse scritto sopra, ma ora voleva conoscere il contenuto di quella lettera. Del curato poteva senz’altro fidarsi, ma preferiva presentarsi al Doge sapendo che cosa conteneva quel foglio. In quelle valli pochissime persone conoscevano il latino, e Matteo, per farsi leggere quella lettera si recò immediatamente da un membro della Banca di Antro, dal quale una volta aveva udito proferire delle parole strane, simili a quelle usate dal sacerdote durante la messa. La scelta di quella persona non fu casuale, in quanto Matteo voleva dimostrare agli avversari di cosa era capace e la sua risolutezza.
- "Capovolgi la lettera, somaro", gli disse il membro della Banca, "non ho ancora imparato a leggere a rovescio". Matteo capovolse la lettera torcendo le mani e tenendola a dovuta distanza dall’uomo. Non voleva abbandonare quel pezzo di carta così importante per lui neppure per un attimo.
- "Chi ha scritto queste cose?" gli chiese il membro della Banca.
- "Non lo saprai mai!" rispose Matteo con tono di sfida.
- "Quello scritto è una falsità! Solo così riuscirete ad impadronirvi della chiesa", rispose irritato il membro della Banca.
- "No, qui c’è la verità!" rispose Matteo, "E con questa verità mi recherò dal Doge. Partirò domani stesso, dopo il tramonto."
I due si lasciarono e Matteo tornò a casa esultante facendo vedere alla moglie quel foglio prezioso.
-"Ma che cosa c’è scritto sopra?" gli chiese la moglie.
-"Non lo so di preciso, ma senz’altro dice che la chiesa è nostra. Sai l’ha scritto il curato. Domani sera partirò per Venezia; vorrei essere là già nella mattinata del giorno seguente. Raccogli in solaio le castagne più grosse che abbiamo e riempi due sacchi. Ammazza la coniglia, quella sterile, e dalla a Olga che la porti al curato. Venderò le castagne al mercato e comprerò del sale. Dove c’è il mare il sale è a buon mercato." Per tutta la giornata in casa di Matteo continuarono con frenesia i preparativi per quella partenza. La moglie di Matteo andò a chiedere per il paese ceste, gerle, rastrelli, ed ogni cosa che poteva essere venduta al mercato. Matteo sperava di concludere dei buoni affari ed alla fine, col ricavato, avrebbe ripagato tutti. Analoga frenesia quella sera aveva colto i membri delle due Banche questa volta riunite d’urgenza e senza il richiamo delle campane. Quella riunione doveva restare segreta! Dovevano prendere una decisione rapida, grave e dolorosa! Iniziò a parlare il membro della Banca d’Antro, quello che aveva letto la lettera di Mattia, rivolgendosi con parole durissime ai convalligiani della Banca di Merso.
- "Quello che sta per succedere è vergognoso, inaudito, e tutto per causa vostra. Non solo avete giudicato su cose che non vi competevano, ma addirittura avete consegnato a Matteo uno scritto pieno di falsità perché, in base ad esso, Venezia dia un giudizio a voi favorevole". Si alzò in piedi il rappresentante della Banca di Merso e replicò: "Nulla di più falso! Io sono paesano di Matteo, sapevo di questa sua decisione e Dio solo sa quante volte gli ho detto di pazientare. Nessuno di noi ha scritto quella lettera, di questo ne siamo certi, perché tra noi solo due persone conoscono quella lingua e le loro parole sono degne di fede. Riguardo alla sentenza, sapete bene che né noi né voi possiamo dare giudizi sui beni appartenenti alla chiesa."
- "E chi può avere scritto una lettera simile allora? Spero che comprendiate anche la gravità della situazione che si sta creando in questo momento in queste valli", ribatté il membro della Banca di Antro. "Mai prima d’ora i nostri tribunali si erano trovati in conflitto. Ma c’è un fatto ancora peggiore! Se Matteo domani si recherà a Venezia e racconterà ciò che sta succedendo tra noi, come pensate che Venezia giudicherà il nostro comportamento? Ci riterrà incapaci di amministrarci, ci toglierà le nostre autonomie e magari affiderà la giurisdizione di queste valli a qualche signorotto di Cividale, che non attende altro. Che ne sarà di noi? Saremo schiavi di Venezia e Cividale."
- "Bisogna impedire a Matteo di recarsi a Venezia", disse un altro membro.
- "Certo, sono d’accordo pure io, purché nel frattempo dirimiamo le nostre questioni", disse un terzo.
- "Ma come si può fermare Matteo?" disse il suo paesano. "Io lo conosco, è una testa calda; nessuno riuscirebbe a fargli cambiare ciò che ha deciso."
- "In ogni caso Matteo non deve arrivare a Venezia", disse un membro della Banca di Antro.
- "Che cosa significa non deve arrivare?" chiese il paesano di Matteo.
- "Se non possiamo impedirgli di partire faremo in modo che non giunga mai a destinazione", fu la risposta.
- "E come si può fare ciò?"
- "Se la nostra volontà è questa, sarebbe meglio decidere chi farà ciò"
- "Ma siete pazzi? Capisco bene cosa intendete?"
- "Hai capito benissimo!"
- "Io lascio questa assemblea di assassini. Abbiamo lottato contro i Turchi ed altri invasori per salvare le nostre terre, le nostre case, i nostri figli, ed ora ci accaniamo contro noi stessi?"
- "Cerca di immaginare cosa accadrà alle nostre famiglie se perdiamo la nostra autonomia. Moriremo di fame soffocati dai balzelli di chi ci comanderà. Fino ad ora non abbiamo versato tributi a nessuno! Cerca di immaginare i nostri figli arruolati in altri eserciti. Fino ad ora nessuno di noi è morto combattendo per altri! Si tratta di sacrificare una vita per salvarne cento, mille o forse più."
- "Io non mi sento di prendere questa decisione. Conosco Matteo, sua moglie, sua figlia Olga; lasciate che gli parli."
- "No! Tu stesso hai detto che è impossibile fargli cambiare idea. Guai se solo immaginasse quello che stiamo per decidere. Guai se qualcuno spargesse la voce. Se Venezia venisse a sapere di questa nostra decisione, ci giudicherebbe e condannerebbe come degli assassini. Metteremo questa decisione ai voti e come sempre ci assoggetteremo al volere della maggioranza."
- "Ma a chi toccherà attuare la sentenza?"
- "Matteo, con il suo carattere si è già creato qualche inimicizia, ed ora qualcuno non attende altro che il momento più opportuno per regolare il conto."
- "Ma se avete già trovato il boia significa che avete emesso la sentenza prima che questa corte decida."
- "A volte non si può fare a meno di certe decisioni. Il voto diventa solo una formalità."
- "Ma..vogliono uccidere il mio babbo!" urlò Olga disperata al castagno, "Fai qualcosa!"
- "Purtroppo, nella storia, situazioni anche più tragiche di questa si sono ripetute frequentemente. Talvolta gli eventi evolvono in modo tale che nessuno, pur desiderandolo, è in grado di fermarli o correggerli. E’ la storia, che sembra già scritta, che deve fare il suo corso schiacciando e divorando l’uomo. Solo dopo ci si rende conto che la storia doveva essere cambiata. Ma questa convinzione è durata sempre poco. Noi castagni dovremmo ricordarvi più spesso queste cose, dovremmo tutti imparare a parlare, ma non è facile. Dovremmo vivere più a lungo per riuscire a fare ciò. Se tu fermassi le accette dei valligiani, potresti salvarci."
- "In questo momento non ho tempo, devo salvare il mio babbo! Ti prego castagno aiutami! Dimmi cosa posso fare!"
- "Non levarti di dosso quel montone e sii più testarda di tuo padre."
- "Ma babbo, non ho freddo! Dormirò al tuo fianco mentre guiderai il cavallo"
- "Olga, devi restare accanto alla mamma. Penso che pure lei stanotte non dormirà, sapendomi in viaggio."
- "Neppure io dormirò lontana da te! Babbo voglio vedere da vicino quel mare che vedo dai monti, voglio vedere le navi, voglio vedere Venezia."
- "E va bene piccola. Allora partiremo domattina all’alba. Adesso vai a dormire perché il viaggio sarà lungo e faticoso."
Quella sera Olga, felice ed eccitata, non riuscì a dormire. Non dormì la mamma, che dovette preparare ulteriori vivande per la figlia. Non dormì il babbo, per quella preoccupazione in più che si era aggiunta all’ultimo momento. Non dormì il suo boia, che lo attese invano per tutta la notte sulla strada. Non dormirono i membri delle due Banche, nell’attesa di ricevere la notizia dell’esecuzione.
- "Ma come? Non è possibile! Buono a nulla, ti sei addormentato."
- "No! Vi giuro! Ho atteso tutta la notte ma non è passato. Qualcuno deve avere fatto la spia ed avrà preso un’altra strada"
- "Se le cose stanno così sappiamo tutti chi è il traditore tra noi. Bisognava ammazzarne due!"
Mentre nelle valli si pronunciavano queste parole, Mattia e Olga avevano già lasciato le nostre montagne e iniziato l’attraversamento di una sterminata pianura. Mattia si trovava in difficoltà in quanto lungo il percorso gli mancavano i riferimenti che era solito avere tra i suoi monti. In quei luoghi non esisteva una valle da percorrere o una cima verso la quale dirigersi. La strada che aveva imboccato era ampia e conduceva attraverso una sterminata pianura. Di tanto in tanto volgeva lo sguardo alle sue spalle controllando che dietro ci fosse sempre il suo faro: il monte Matajur. Era così che qualcuno gli aveva consigliato di fare. Quando anche quella cima scomparì dai suoi occhi, Olga iniziò a fare al babbo un sacco di domande strane:
- "Babbo ma cade la neve qui?"
- "Certo che cade."
- "Ma da dove arriva se non ci sono le montagne?"
- "Scende giù dal cielo, come da noi."
- "Non riesco a capire", disse Olga.
- "Babbo, babbo, ma c’è l’acqua qui?"
- "Ma certo che c’è!"
- "Ma da dove sgorga se non ci sono le montagne?"
- "Sgorga dai nostri monti, da dove siamo partiti, e si dirige verso il mare, proprio come noi."
- "E il sole dove tramonta se non ci sono le montagne qui?"
Matteo non aveva la pazienza di rispondere a tutte quelle domande e per Olga, nata e vissuta tra i monti, quei luoghi erano veramente strani. Il carretto a due ruote che il cavallo trainava instancabile, serviva per tirare i grossi tronchi fuori dal bosco; per quell’occasione Matteo aveva fissato su di esso un enorme cesta di vimini che veniva usata per portare il letame negli orti e nei campicelli privi di strade adeguate. Sdraiata in quella cesta, tra i sacchi colmi di castagne ed un fascio di fieno, cullata dagli scossoni talvolta violenti di quel carretto, avvolta nella sua pelle di montone, Olga si era assopita. Anche il capo di Matteo, che il carretto faceva sballottare, di tanto in tanto crollava improvvisamente. Solo il cavallo, sgravato dal solito fardello, proseguiva leggero, anche senza guida, seguendo la strada e gli altri viandanti. Matteo di tanto in tanto si svegliava bruscamente e osservava il paesaggio sempre identico. Non riusciva a capire di quanto avesse proseguito dopo l’ultimo risveglio. Talvolta, per attraversare qualche guado, era costretto a scendere dal carro e a guidare il cavallo in mezzo alle acque afferrandolo per le briglia. Allora consegnava a Olga le sue scarpe di stoffa nel timore che la corrente del fiume le portasse via. La giornata stava giungendo alla fine. Olga osservava il sole enorme che tramontava sotto la pianura ricevendo dalla natura le risposte alle sue domande. Qualcosa diceva loro che la meta era ormai vicina: i carri e le persone che transitavano su quella strada si facevano sempre più numerosi. Nonostante ciò, decisero di fermarsi. Si stava facendo notte e anche il cavallo aveva bisogno di riposo. Seguirono un gruppo di cavalieri e di carrettieri che si stava dirigendo verso una grande stalla nei pressi della quale sostava una moltitudine di persone. Molti accendevano fuochi per scaldare le vivande, altri dormivano avvolti in una grande coperta scura; si udiva in lontananza il suono di un violino: sembrava quasi l’inizio di una festa. Poco distante, i cavalli legati in riga ad una staccionata, venivano foraggiati e dissetati. Matteo era stato previdente e aveva portato con sé del suo fieno facendo così qualche piccola economia; chiamò Olga nei pressi di un pozzo dove c’erano numerosi mastelli in legno. Pescò l’acqua dal pozzo finché riempì un mastello. Entrambi bevettero l’acqua e si rinfrescarono il viso e le mani, poi portarono il mastello al loro cavallo affinché bevvesse. Matteo iniziò a frugare tra il fieno che era rimasto sul carretto, estrasse una piccola cesta nella quale aveva riposto del cibo e fecero cena. Polenta fredda, salame, formaggio e uova sode. Quello sarebbe stato il loro menù per cena, colazione e pure a pranzo. Olga iniziò a vagabondare incuriosita tra quei gruppi di persone e tra i carri colmi di merci. Su di essi c’era tutto quello di cui una città poteva avere bisogno: sacchi ripieni di granaglie, patate, botti colme di vino, gabbie nelle quali era rinchiuso ogni genere di animale da cortile, fieno, legname e molte altre merci ancora. Teneva stretto tra le mani il suo pezzo di polenta e ascoltava incuriosita il dialogare dei viandanti. Non aveva mai udito prima di allora parlare quelle lingue, ma fra tutte quelle persone, c’era anche chi parlava una lingua simile alla sua. Del resto, il palato raffinato dei Veneziani, richiedeva prodotti da tutta l’Europa. Ritornò dal suo babbo che stava frugando nuovamente in mezzo al fieno. Alla fine tra le mani di Matteo comparvero delle pere e delle mele. Il lamento del violino continuò per tutta la notte, tra i canti di alcuni viandanti ubriachi e l’abbaiare dei cani. Olga, avvolta nella sua pelle di montone, si era accovacciata nella cesta, e infilatasi nel fieno osservava il sorgere della luna. Matteo si era sdraiato sotto il carro e approfittando di quel tenue chiarore cercava di decifrare la lettera che suo curato gli aveva preparato. Alla fine, stanco, disse le preghiere e si addormentò. Il giorno seguente il carretto si mosse di buon mattino. Matteo doveva sbrigare molte faccende quella giornata: innanzitutto la visita al Doge, poi la vendita dei suoi prodotti al mercato, ed alla fine, qualche acquisto. Prima di lasciare quel luogo si fece dare delle indicazioni sul percorso da intraprendere da alcuni commercianti con i quali riuscì ad intendersi. Capì che era già molto vicino a Venezia. Dopo solo un paio d’ore di cammino tra alberi e canneti comparve improvvisamente davanti ai suoi occhi il mare.
- "Olga! Olga! Vieni a vedere!"
Matteo chiamava Olga che dormiva in mezzo al fieno come se si trovasse sulla cima di una montagna. Si capiva che era eccitato. La visione di quell’enorme distesa azzurra lo lasciava stupefatto e felice come un bambino. La sua gioia in quel momento fu grande perché finalmente era giunto alla meta. "E’ fatta!" pensò tra sé. "Tra breve saremo sulla via del ritorno." Olga, che aveva ancora addosso la stanchezza della giornata precedente, sollevò lentamente il capo, quel tanto che bastava affinché i suoi occhi vedessero oltre la cesta nella quale continuava il suo dormiveglia. Matteo, accortosi del sonno della figlia, smise di urlare e proseguì in silenzio lungo la strada seguendo la processione di gente che si stava formando verso quella città. Olga osservava la bellezza di quel mare che rifletteva i raggi del sole contro i suoi occhi; notava in lontananza la città, con le cupole delle chiese illuminate dal sole. Lo stupore di entrambi si manifestava in silenzio, quando ad ogni incrociarsi dei loro sguardi, sui loro volti appariva un dolce sorriso. Giunsero vicini alla città, in un punto dove sostavano numerosi carri. Alcuni carrettieri scaricavano le loro merci su quello spiazzo, altre, venivano caricate su delle barche. Matteo cercò invano di chiedere che cosa stesse succedendo, ma purtroppo non riuscì a farsi capire; si avvicinò con il suo carretto ad un barcaiolo il quale, a sua volta, capì subito di cosa avesse bisogno Matteo.
- "San Marco?" gli chiese questi.
- "Doge", rispose Matteo. Il barcaiolo annuì e senza parlare fece caricare le merci sulla sua barca; poi indicò a Matteo dove doveva lasciare il carro ed il cavallo; gli mostrò una moneta, e gesticolando fece capire che voleva il pagamento del tragitto in anticipo. Matteo tirò fuori dalla sua giacca tre monete e le fece vedere al barcaiolo. Questi afferrò la più grande, poi prese per mano Olga e la fece salire sulla barca, adagiandola tra i due sacchi di castagne. Olga osservava tutt’attorno in silenzio. Anche Matteo era diventato cupo e silenzioso. La moneta grande finita nelle tasche del barcaiolo lo aveva reso di pessimo umore. Il barcaiolo non si decideva a partire e chiamava a se chiunque passasse nei pressi della sua barca. Finalmente salirono altre persone e fu caricata ancora merce. Ad ogni collo che veniva gettato sulla barca, questa oscillava paurosamente e sprofondava. Nel frattempo l’acqua del mare aveva iniziato a lambire il bordo della barca appesantita dalla tutta quella merce e quelle persone. Quella situazione stava infastidendo Matteo, che iniziava pure a soffrire di mal di mare. Egli era abituato a posare i piedi sulla terra ferma per cui innervosito e spazientito, urlò:
- "Quanti soldi vuoi guadagnare ancora, maledetto barcaiolo, deciditi a partire che io ho cose importanti da trattare qui. Devo incontrare il Doge!"
Il barcaiolo non comprese nulla di quelle parole. Si piazzò in coda alla barca e iniziò a remare. Olga mise un mano nel mare ed iniziò a giocare con le onde. Raccolse nel suo palmo un poco d’acqua e la portò alla bocca. Era salatissima e la sputò subito. Matteo si mise a ridere e spiegò a Olga che l’acqua del mare non era come quella delle loro fonti. Qualcuno su quella barca ascoltava incuriosito i dialoghi tra i due. Dopo un poco si avvicinò a Matteo e gli chiese:
- "Ho sentito che devi incontrarti con il Doge. Chi sei tu che hai questo privilegio? Di solito gli straccioni attendono il Doge ai bordi della strada e solamente per ricevere un poco di carità. Tu avresti addirittura cose importanti da trattare. Da dove vieni, tu che non parli la nostra lingua?"
- "Vengo dalle montagne poste a confine dalle terre di Venezia e ho portato al Doge i nostri prodotti: castagne e manufatti in legno, in cambio di un pò di giustizia. Ma chi sei tu che comprendi la mia lingua?"
L’uomo non rispose e chiese sottovoce a Matteo: "Di che cosa sei accusato? Hai rubato? Hai forse ucciso qualcuno? Ti vogliono arrestare?"
Matteo rispose stizzito: "Ma che stai blaterando. Io sono una persona onesta. Non ho fatto male a nessuno. Voglio, anzi, vogliamo che ci sia resa giustizia. Sai leggere tu?"
- "Certamente", rispose l’uomo, "Ho girato il mondo e parlo diverse lingue; ma dimmi, di che si tratta?"
Matteo iniziò a raccontare all’uomo la storia della chiesa ed il motivo del suo viaggio a Venezia.
Alla fine l’uomo scoppiò in una risata fragorosa, e rivolgendosi ai suoi vicini disse: "Avete sentito? Quest’uomo vorrebbe essere ricevuto dal Doge… per una chiesetta…dal Doge in persona!"
Tutti si misero a ridere. Matteo, spazientito, estrasse la lettera e disse: "Ecco qua! Questa lettera è per il Doge. Leggi, leggi anche tu, così ti persuaderai." Tutti si avvicinarono a guardare incuriositi quel pezzo di pergamena, ma solo quel tizio sembrava comprenderne il contenuto. Questi prese il foglio tra le mani, lo osservò, lo rivoltò, poi con fare serio disse: "Mmm…sono cose serie, ma non sufficienti per fare smuovere il Doge. Che cosa vorresti da lui?"
- "Che risponda a questa lettera, che sentenzi con uno scritto che la chiesa è nostra", disse con tono fermo Matteo.
- "Sei veramente fortunato ad avermi incontrato. Potrei essere la persona che fa per te. Non vorrei contraddirti, ma, credimi, queste questioni sono di secondaria importanza per il Doge."
- "Ma che dici!" urlò Matteo, "Tu pensi che io sia venuto fino qui per delle sciocchezze?"
- "No, non volevo dire questo; volevo solamente dire che su queste cose le decisioni vengono prese da altre persone; il Doge, alla fine, appone solamente la sua firma, accanto il sigillo di Venezia, sulla pergamena contenente il testo che altri hanno preparato per lui."
- "E chi sarebbero queste altre persone?" chiese Matteo.
- "Ti ripeto, sei stato fortunato ad incontrarmi. Io conosco proprio colui che si occupa di questi casi."
- "Chi è? Dimmi chi è?" chiese con impazienza Matteo.
- "Un attimo di pazienza!", disse l’uomo, "Questo signore ha sempre un gran daffare e pure io, per farmi introdurre da lui, devo lasciare qualche obolo qua e là, e non parliamo poi delle sue richieste! Quanti denari hai con te?"
- "Che? Vorresti da me denaro? Dovrei pagare per ricevere giustizia? Giammai!"
- "Allora non verrai a capo di nulla", rispose seccatamene quel tizio.
- "Tu non mi conosci! Non sai chi è Matteo! Ho camminato per un giorno ed una notte per arrivare fino qui, ed ora nessuno mi fermerà."
- "Guarda le altre barche. Dove pensi siano dirette? Osserva le persone che trasportano: nobili, signori, ricchi uomini d’affari. Guarda con quante e quali merci si recano alla corte. Credo che capirai da solo quanto lunga dovrà essere la tua attesa. Quanti soldi hai per restare in questa città?" Matteo divenne improvvisamente pensieroso e chiese: "Ma cosa devo fare allora?"
- "Nulla, proprio nulla. Le persone testarde come te non giungono mai a capo di nulla, quelle scaltre invece…"
- "Che cosa vorresti dire?"
- "Vedi Venezia? E’ piena di canali, ponti, vicoli… un vero labirinto per un forestiero! Chiunque si perderebbe! Eppure ti sei affidato ad un barcaiolo esperto che senz’altro ti condurrà in piazza San Marco. Le faccende politiche sono ancora più intrigate! Vedi quanti palazzi ha Venezia? Palazzi, con innumerevoli scale; scale che conducono a corridoi con decine di porte; porte che danno accesso a stanze piene di scaffalature; scaffalature che sorreggono pile di pergamene sulle quali sono scritti testi di leggi e regolamenti. Roba da spaventare anche gli avvocati più esperti. Tu vorresti arrivare nella stanza giusta da solo, e lì trovare la legge che fa per te? Non ci riuscirai mai! Se ti affidi a me otterrai quello di cui hai bisogno". Le argomentazioni e la veemenza oratoria con la quale quel signore si rivolgeva a Matteo stavano scalfendo quella roccia.
- "E tu, cosa vorresti in cambio?"
- "Nulla, a me non devi nulla!" rispose il tizio con fare quasi offeso, "Ciò che ti chiedo non è per me, ma serve aprire le porte, ungere le serrature, fare aprire i cassetti, rovistare tra le carte, e poi..."
- "E poi..?" chiese Matteo, quasi ipnotizzato dalla loquacità di quell’uomo. "E poi, trovata la legge a te favorevole, sarà necessario far scrivere quella lettera, quella dichiarazione da sottoporre per la firma al Doge, te lo sei già scordato?"
- "No, no, hai perfettamente ragione." Quel personaggio sembrava onesto e disinteressato, e per di più parlava la sua lingua!
- "Io ho solo queste castagne. Pensavo di venderne una parte, e donare la rimanenza al Doge. Ho anche delle gerle, ceste e rastrelli, cose che produciamo sulle nostre montagne e che vorrei vendere al mercato."
- "Ma non ti sei accorto che a Venezia nessuno lavora! Quale erba raccoglierebbero qui i tuoi rastrelli? Con quale frutta riempirebbero i veneziani le tue gerle? Quegli oggetti qui non hanno valore! Ma non possiedi denaro?"
Che in quella città nessuno lavorasse, perlomeno come lui concepiva il lavoro, questo, Matteo se l’era già chiesto. Come facesse a vivere tutta quella gente, era un mistero al quale doveva dare ancora spiegazione. Il volto di Matteo si faceva sempre più scuro perché vedeva sbriciolarsi uno dopo l’altro i suoi progetti. Cominciava a sentirsi a disagio in quel luogo. Quell’acqua sembrava emanare un odore nauseabondo di pesce al quale non riusciva ad abituarsi. In quel momento si sentì piccolo, fra tutti quei mercanti, povero fra tutti quei signori, instabile e timoroso per stare eretto su di una barca, al confronto dei barcaioli che addirittura, remando, cantavano. Solo allora si rese conto che le vesti che indossava erano degli stracci, se paragonati a quelle variopinte dei veneziani. Come aveva potuto immaginare di poter chiedere udienza al Doge? Olga intanto continuava ad accarezzare le onde del mare, ma il suo volto era rivolto costantemente verso l’alto. I suoi occhi, dopo l’oscurità del passaggio sotto i ponti, attenuata dai riflessi di luce solare ondeggianti sotto le volte, venivano abbagliati dal comparire improvviso del sole, ma non per questo abbassava il suo sguardo. I palazzi decorati, le abitazioni che sbucavano dall’acqua, le cupole delle chiese, i ponti con le scalinate e i parapetti in pietra che venivano attraversati da persone con vesti colorate, la incantavano. Fino a quel momento era rimasta in silenzio, estranea ai dialoghi del babbo e degli altri signori. Ad un tratto emise un grido che fece tacere tutti:
-"Babbo! Babbo! Guarda che campanile immenso!" Olga aveva urlato con una tale veemenza che anche chi non aveva compreso le sue parole seguiva il suo dito puntato verso il cielo. Anche Matteo smise di parlare ed osservava con il naso all’insù quel campanile che scorreva di fronte a lui.
- "La chiesa! Babbo guarda la chiesa!" Marco si segnò e continuò a guardare in silenzio. Gli altri uomini si alzarono in piedi ed iniziarono a raccogliere gli oggetti che avevano deposto sulla barca, segno questo che erano giunti al capolinea.
- "Matteo scaricò i due sacchi di castagne sul bordo della piazza. Olga dalla barca gli gettò i rastrelli le ceste e le gerle. Poi tutti scesero."
- "Caro amico ti saluto", gli disse il tizio che l’aveva accompagnato, "Cerca di non perderti in questa città e stai attento agli imbroglioni, c’è ne sono dietro ogni angolo!"
- "No fermati, attendi un attimo!" gli gridò Matteo vedendo che stava per allontanarsi.
- "Non ho tempo da perdere con quelli come te. Devo sbrigarmi. Ho un appuntamento urgente con un ministro della Repubblica." Matteo lo rincorse e lo trattenne per la veste:
- "Riusciresti veramente a procurarmi quel documento e a farlo firmare al Doge? " gli chiese.
- "Non fare altre domande senza prima aver risposto alle mie. Quanto denaro hai con te? Te lo chiedo per l’ultima volta."
- "Di quanto denaro hai bisogno?" replicò Matteo.
- "Fammi vedere quanto ne possiedi!" insistette il tizio. Alla fine Matteo si arrese e sbottonò i calzoni dai quali estrasse, da una tasca interna cucita dalla moglie proprio per quella occasione, alcune monete. L’uomo le osservò un attimo scotendo la testa:
- " Mmm…veramente poco! A Venezia per queste quattro palanche non si gira nessuno. Svuota le altre tasche!"
- "No, ti giuro che non posseggo null’altro!"
- "Temo che non basteranno, però se hai fiducia in me cercherò di fare il possibile."
- "Certo che ho fiducia!" rispose Matteo.
- "Anzi porterò con me anche le castagne", disse il tizio, "non si sa mai…" e fece un cenno ad una persona che osservava i due a breve distanza. La persona si avvicinò e caricò i due sacchi di castagne su una carriola.
- "Ma…?" disse sorpreso Matteo, "Mi sembra che tu mi stia chiedendo troppo!"
- "Vuoi tornare a casa col documento che ti serve o preferisci tornare a mani vuote."
- "Voglio quel pezzo di carta, però..." Il tizio non gli fece terminare la frase e gli disse: "Devo sbrigarmi perché se perdo il mio appuntamento puoi buttare veramente tutto a mare, e stai certo che nessuno si getterà in acqua a raccogliere queste cianfrusaglie. Anzi…", disse rivolgendosi all’uomo con la carriola. "sarà bene prendere anche le ceste, le gerle ed i rastrelli, qualora i soldi e le castagne non bastassero."
- "No! E’ troppo!" gridò Matteo.
- "Lo vuoi il documento?" gridò il tizio.
- "Allora vengo con voi", disse Matteo.
- "Non è possibile. Attendi su questa piazza; torneremo fra breve." Matteo si mise a seguire i due quando fu fermato da un grido di Olga:
- "Babbo! Babbo! I Turchi!"
- "Ma quali Turchi?"
- "Là, sul mare!"
- "Non bastavano quei due, ora ti ci metti pure tu con le tue fantasie! "
- "Guarda quelle navi. Mi hanno raccontato che quando i turchi invasero le nostre terre si videro molte navi sul mare."
- "Santo cielo!" esclamò Matteo esterrefatto. "Quante navi! E sono veramente enormi. Quelle sono le navi di Venezia. Osserva le bandiere che sventolano sugli alberi. Pure quelle che videro dalle nostre montagne, ai tempi delle invasioni dei Turchi, erano navi di Venezia. In quel momento rappresentavano la sua potenza, ma anche il suo nervosismo. I Turchi erano peggio della peste e Venezia si affrettava a trasportare sull’altra costa dell’Adriatico uomini ed armi per tenerli a bada. Ma…! Dove sono spariti quei signori. Se la sono squagliata con il mio denaro e la mia roba. Olga, sapevo che non dovevo portarti con me, adesso non posso neppure inseguirli.
- "Attendiamo su questa piazza, ritorneranno tra breve, l’hanno promesso!"
- "Certo, certo, ritorneranno…", disse Matteo masticando quelle parole tra i denti. Non voleva fare capire a Olga quanto era stato incauto. Mentre Olga continuava ad osservare le bellezze di quella città Matteo camminava nervosamente lungo quella piazza.
- "Babbo! Babbo! Sono tornati!"
- "Chi? I Turchi?"
- "Ma no! Quei signori!"
Povero Matteo, era veramente frastornato! Corse incontro al tizio che stava sbucando da un vicolo, e questi, raggiante, sbandierava una pergamena proferendo incomprensibili parole in latino. Avvicinatosi, Matteo quasi strappò la pergamena di mano al signore, osservò attentamente che vi fosse apposto il sigillo di Venezia, e poi iniziò a saltare di gioia. Prese in mano il suo berretto e lo lanciò in aria festante. Il berretto cadde sull’acqua del mare e rimase lì, a galleggiare tra i galeoni e le galee.
- "Spero che tu non abbia nascosto in quel berretto del denaro." gli disse il tizio. "Purtroppo non è bastata tutta la tua roba per ottenere quella carta."
- "Non ho più nulla!" disse Matteo, "Nulla! Neppure i soldi da dare al barcaiolo per il ritorno"
- "Per quello non c’è problema", disse il tizio, "ci sono i ponti che ti condurranno fino alla terra ferma, però io vorrei essere saldato."
- "I patti erano che ciò che ti ho dato sarebbe stato sufficiente, ed io non possiedo veramente più nulla." Alla fine il tizio gli credette e non insistette più.
- "Ma cosa c’è scritto qui sopra?" chiese Matteo osservando la pergamena appena ricevuta.
- "Quello che mi hai richiesto", rispose il tizio iniziando a leggere a voce alta in latino. Matteo, colto da mille dubbi, lo incalzava con le sue domande:
- "Ma la firma sul sigillo è quella del doge?"
- "Naturalmente!", rispose il tizio, "Adesso devo lasciarti perché mi attendono altri impegni urgenti."
Matteo osservò ancora un attimo quella pergamena, la avvolse con cura, ringraziò quel tizio e disse a Olga:
- "E’ ora di lasciare questa città! Si fa ritorno a casa!"
I due presero la strada del ritorno, l’uno, felice per quello che aveva ottenuto, l’altra, triste perché avrebbe voluto fermarsi ancora ad ammirare le bellezze di quella città. Dopo aver attraversato innumerevoli ponti e stradine giunsero finalmente al luogo dove avevano lasciato il loro cavallo ed il carretto. Matteo, senza più denaro, dovette foraggiare e abbeverare tutti i cavalli che si trovavano in custodia in quella stalla per saldare il suo debito con lo stalliere. Quando finalmente riuscì a ripartire, il sole che stava volgendo al tramonto dipingeva le acque del mare di rosso, regalando ai due, come saluto, un’ultima splendida immagine di Venezia. "Viaggeremo anche di notte", disse Matteo a Olga, "ora che conosco la strada sarà più facile dirigersi verso casa." Lasciata la città il primo pensiero di Matteo fu per la figlia. Spezzò delle fronde da alcuni arbusti e le mise nella grande cesta, ormai priva di fieno, fissata sul carretto.
- "Adesso potrai dormire sul morbido, mentre io guiderò il carretto", disse Matteo alla figlia. "Cerca di addormentarti, così non sentirai la fame."
- "Che cosa racconteremo alla mamma?", chiese Olga al babbo.
- "Le racconteremo che sono riuscito ad avere quello che ci spettava. Sarà fiera di me!"
- "No! Le racconteremo che abbiamo visto il mare, le navi, tanti ponti e palazzi, quel campanile altissimo…"
Olga continuava a parlare con il babbo e pure lui parlava, pur non proferendo parole, preparando le cose che avrebbe raccontato al suo ritorno al paese: il suo incontro con il Doge, l’esposizione delle sue ragioni, il pranzo a corte con i più alti esponenti della Repubblica Veneta e con delle splendide dame, e magari chissà cos’altro ancora..! Ognuno si addormentò con i suoi pensieri, mentre il cavallo proseguiva lungo la strada del ritorno. Quando Matteo si risvegliò il cielo stava già rendendo un debole chiarore. Il cavallo si era fermato ai bordi della strada e stava brucando l’erba tranquillamente. "Iiiih…" gridò Matteo innervosito colpendo con un bastone la schiena del cavallo. "Chissà quanto tempo siamo rimasti fermi qui? Brutta bestia, corri !", poi si assicurò che la pergamena fosse ancora con lui. Il viaggio proseguì ancora per molto e finalmente Matteo riuscì a scorgere il suo faro: il monte Matajur. Dopo ore di strada attraverso boschi, fiumi e paesi, con lo sguardo costantemente rivolto verso quella vetta, giunsero alla città di Cividale. Sebbene Olga avesse fame e Matteo fosse privo di soldi, questi decise di fermarsi in quella città. Sapeva che lì avrebbe incontrato tanti convalligiani, così avrebbe potuto anticipare quello che era riuscito ad ottenere da Venezia. Così fu! Attorniato da alcuni paesani Matteo sventolava felice quella pergamena della quale nessuno dei presenti riusciva a comprenderne il contenuto, ma il sigillo in ceralacca, con sopra stampigliato il leone di San Marco, era sufficiente garanzia per tutti. Mentre nella città gli amici lo festeggiavano, riempiendogli bicchieri di vino, qualcuno si affrettava a portare nelle valli la notizia del suo ritorno. Nel frattempo Olga dovette faticare sette camicie per sottrarre il babbo da quella compagnia e riportarlo sulla strada verso casa. Pure lei era desiderosa di raccontare alla sua mamma l'esperienza di quel viaggio. Quel desiderio era talmente grande che appena vide in lontananza il suo paese scese dal carretto e si mise a correre verso casa, attraverso i campi di granoturco ed i filari di vigne, saltando i fossati e piegandosi sotto i legni dei recinti. Alla fine si unì alla madre in un caldo abbraccio ed iniziò, piena di gioia, il suo lungo racconto. La madre la ascoltava con gli occhi rivolti alla strada. Attendeva l’arrivo del marito. Era stata molto in pensiero quei giorni. Il paesino era piccolo e le valli strette; qualcuno le aveva fatto capire che Matteo, in quel viaggio, avrebbe corso dei seri pericoli, ma ora, finalmente era ritornato a casa. Scorgeva in lontananza il cavallo che trainava lentamente il piccolo carrettino. Giunto in paese il cavallo si fermò nel centro della piazza quasi non sapesse dove proseguire. La mamma di Olga, non vedendo il marito nei pressi del carretto corse allarmata verso di esso. Nella grande cesta di vimini, una giacca intrisa di sangue rilasciava lentamente a terra delle gocce che coloravano la polvere bianca che ricopriva la strada. Sorretta dai paesani accorsi alle sue grida, iniziò a seguire quella lugubre scia. Non molto lontano giaceva a terra, senza vita, il corpo del marito. Della pergamena attestante i diritti di quel paese sulla chiesetta di San Silvestro, nessuna traccia.
- "Maledetto castagno, ti avevo chiesto di aiutarmi a salvare il mio babbo!" urlò Olga in lacrime.
- "Purtroppo, per lui non c’era nulla da fare. La storia era già scritta. Ma tu sei riuscita ad allungargli la vita, a farlo morire felice dopo che aveva ottenuto quello in cui aveva creduto."
- "Ma morì veramente felice? Non è il dono della vita la più grande gioia su questa terra?"
- "Naturalmente, ma la vita è fatta anche di ideali, e il tuo babbo è morto per portare a termine qualcosa in cui credeva. Senza ideali anche voi, esseri umani, sareste come noi, dei semplici vegetali."
- "Però voi non fate guerre, non rubate, non odiate; dopo quello che ho visto vorrei anch'io essere un castagno. Se vuoi raccontare nuovamente all'uomo la sua storia significa che tu hai compreso ciò che l'uomo non riesce ancora a capire; e poi, dimmi? Salvò queste valli il sacrificio del mio babbo?"
- "Le valli non persero la loro autonomia in quel frangente, perché Venezia non venne mai a conoscenza di questi fatti."
- "Tu menti! Il mio babbo tornò da Venezia con una sentenza firmata dal Doge. Io stessa l’ ho vista."
- "No! Ti ripeto, nessuno a Venezia venne a conoscenza di questi fatti… a parte quel tizio, che era un gran furbacchione, così le valli furono salve."
- "Vorresti dire che quel tizio raggirò il mio babbo? Che gli consegnò un documento fasullo?"
Il castagno non rispose.
- "Parla! Maledetto castagno", urlava Olga, "Dimmi la verità! Dopo tutto quello che mi hai fatto vedere nulla più può impressionarmi. Sono diventata forte, dimentica i tuoi silenzi!"
- "Ti chiedo scusa", disse il castagno, "ma la storia é questa. Non essere triste. Se mi sarà possibile cercherò di farti vedere qualcosa di bello." …