L’ ultima Krivapeta  

Un tempo le valli erano come un giardino, uno splendido giardino, dove era curato ogni  minimo particolare. In pianura, i campi coltivati a granturco, frumento ed erba medica, erano delimitati da filari ordinati di viti ed alberi da frutto. Le numerose stradine, con i bordi di erba falciata, che percorrevano il fondovalle, erano  fiancheggiate da canali, dove scorrevano le acque piovane e quelle delle sorgenti, che sgorgavano ovunque. I campetti sulle collinette, vicino ai paesi, davano patate, frutta e verdura . Le pendici delle montagne erano un grande prato che profumava di fiori, in primavera, e di fieno d’ estate. Nei paesi di montagna, si sfruttava ogni piccola zona pianeggiante per imitare ciò che si vedeva in pianura, ma qui il tutto era ancor più raccolto ed ordinato. Non c’ era un sasso fuori posto o metro di terreno abbandonato a se' stesso. Del resto, per sfamare la numerosa popolazione, questo era un obbligo. Poi, lontano dai paesi, c'erano i grandi pascoli e boschi con i loro casolari e casoni. I percorsi delle strade di montagna intervallavano, al fresco profumato del bosco, il sole cocente nella vastità dei prati. Ogni bosco dava le sue bacche, di cui nutrirsi, ogni prato la sua sorgente per dissetarsi. Alla fine, dove l’uomo non poteva arrivare, vivevano indisturbati gli animali: cinghiali, cervi, caprioli e camosci . Questo paradiso era abitato, da cima a fondo, ed i paesi erano delle piccole città, con numerosi negozi ed osterie, chiese e cimiteri. Qui si nasceva, qui si moriva. Nelle piccole casette, di pietra, legno e paglia, le  famiglie vivevano numerose ed  in promiscuità. La gente lavorava duramente. Gli abitanti dei paesini di montagna, per avere la farina, portavano grano e frumento nei mulini a valle, dove le acque si erano raccolte in modo sufficiente per far girare una pala; poi, ottenuta la farina, il ritorno col fardello a casa. 

Nessuno era escluso dalle attività lavorative; così anche i più piccoli contribuivano a questo lavoro e trasportavano il grano in un sacco fatto di pelle d’ agnello, che potevano trascinare per terra, evitando il peso in spalla. 

Le persone erano unite tra di loro principalmente da bisogni comuni di sopravvivenza. Gli uomini badavano alla difesa del territorio dai nemici. I sacerdoti difendevano le anime dal demonio. Le varie comari assistevano le donne al parto. Le mamme  provvedevano alla crescita dei figli.  Gli anziani, non più in grado di lavorare, morivano. Così si viveva, o meglio, sopravviveva nelle valli. Le valli però erano vive!  Accanto a questa società, apparentemente così unita, nelle valli ce n' era un’ altra, composta di sole donne: era la società delle Krivapete. Queste donne, vivevano isolate dal resto della comunità, generalmente in caverne od anfratti inaccessibili. La loro presenza era segnalata, sulle pendici dei monti, solamente dal levarsi dei fumi dei loro fuochi. A distinguerle dai comuni mortali erano principalmente i loro piedi, rivolti all’ indietro, che provocavano nelle altre persone un senso di ribrezzo e di ripudio. Con i piedi rivolti all’ indietro,  loro, le Krivapete, sono nate, ma questo difetto fisico non sembrava crear loro grossi problemi, se non per  quello strano modo di camminare. Per il resto, potevano anche essere delle belle donne. Portavano i capelli lunghi e lisci, erano alte e slanciate. Erano donne sagge con doti non comuni. L’ isolamento dal resto della società, invece, faceva parte del loro essere, fiero ed indipendente. Gli uomini le deridevano, ma nello stesso tempo le temevano, perché donne così, nelle valli erano pericolose. Senz’ altro non era del tutto dimenticato il fatto avvenuto molto tempo prima, sulle pendici del monte Matajur, quando una Krivapeta si era sposata con un ragazzo abitante in un piccolo paesino di quella zona. La Krivapeta disse al ragazzo, che ne era innamorato: “ Ti sposo, a patto che tu mi considererai una donna normale, per cui non dovrai chiamarmi mai Krivapeta”. Fu così che si sposarono, ed andarono a vivere insieme. Un giorno la Krivapeta disse al marito: ” Prendi il falcetto e vai a tagliare il frumento che è giunto il momento del raccolto” . Il marito, che quel giorno desiderava fare festa, le rispose: “ Devo recarmi a Cividale, taglierò il frumento un altro giorno” . La Krivapeta insistette ancora ed a lungo, fin tanto che il marito seccato le urlò: “ Finiscila, Krivapeta che non sei altro” . Nell’ udire quelle parole, la Krivapeta abbandonò per sempre la casa del marito e ritornò a vivere sulle rocce. Si disse che poi venne un violento temporale, con chicchi di grandine grossi come uova, e distrusse tutto il frumento . Non era mai accaduto, prima di allora, che una donna si ribellasse al marito e lo abbandonasse. E la grandine? Era stata solo prevista o era stata addirittura mandata? Questo, e molti altri fatti simili accaduti nelle valli, avevano fatto sì che le Krivapete vivessero solitarie, osteggiate ma anche temute. Fu così per secoli e secoli; nel frattempo per le valli passarono orde di  barbari e mussulmani portando morte e distruzione. Un giorno, un lontano discendente di questi barbari, volle ripercorrere la strada fatta dei suoi avi. Si diceva addirittura che provenisse dalla stirpe di Attila. Come Attila era potente, e disponeva di uomini e mezzi. 

Attraversò grandi fiumi e sterminate pianure, poi, attraverso le gole delle montagne, giunse fino alle nostre valli. Anche lui volle salire, come il suo progenitore, sul nostro monte più alto, per osservare da lì il resto del mondo. Quello, era un giorno di quelli che non esistono più. Il vento, dopo un violento temporale, aveva spazzato dal cielo ogni nuvola. Il mare sull’ orizzonte, illuminato dal sole,  brillava come uno specchio d’ argento  e dalla pianura sottostante si sollevavano piccole colonne di fumo ad indicare che nei paesini immobili c’era la vita. 

 Le valli, nel frattempo, erano diventate ancora più belle e popolate, mentre il mondo delle Krivapete andava scomparendo, distrutto da quel sapere di cui si impossessavano ogni giorno di più i valligiani. Ora qui si costruivano le scuole e si curavano gli ammalati.  Sulle pendici del Matajur era rimasta solo una Krivapeta, e la natura volle che fosse bellissima.

La Krivapeta attende il barbaro

Presagendo l’ arrivo del barbaro, fece mettere alle valli il vestito bello della festa, e con i suoi poteri lavò il cielo fin dove l’ occhio umano poteva vedere. Il barbaro, giunto sulla cima del monte, vide per la prima volta il mare in vita sua e, commosso, pianse. Questi, era  barbaro di stirpe, ma il suo cuore era mite e la sua mente saggia. Amava le persone e gli animali,  la natura e tutte le bellezze dell’ universo, del quale era profondo conoscitore.  Si voltò alle proprie spalle osservando le montagne, con le cime ancora innevate, che aveva appena attraversato. Pensò alla sua terra, così lontana, ed al suo popolo. Chissà se mai  avrebbe fatto ritorno a casa!  Anche la Krivapeta, nella sua grotta, pensò alla sua stirpe, alle derisioni, alle umiliazioni subite per secoli e,  sapendo dell’ arrivo del potente barbaro, decise che avrebbe riscattato tutte le Krivapete. Fu così che il barbaro, scendendo dalla cima del monte, non potè non notare quella bellezza che si era appostata lungo il suo percorso. La Krivapeta, con i capelli lucenti al sole, lavati e pettinati come solo le Krivapete sapevano fare, indossava un lungo vestito che le copriva i piedi. Una moltitudine di valligiani si era appostata  lungo i bordi della strada  per osservare l' insolito corteo. Notarono come il barbaro, passando, osservasse la Krivapeta ed urlarono : ” Quella è una Krivapeta! Quella è una Krivapeta! ” . Il barbaro, noncurante, proseguì fino ad un paese vicino dove si fermò per passare la notte.   

Quella sera, nonostante attorno alla sua tenda vigilasse una numerosa scorta, egli non dormì. La bellezza delle valli aveva colpito i suoi sensi, quella della Krivapeta, il suo cuore. Il giorno seguente decise di non proseguire oltre, anche per far riposare i suoi uomini, ed organizzò una festa per la sera. Le carni poste sotto le selle dei barbari non erano sufficienti per una festa come si deve. Mandò i suoi uomini nei paesi vicini dove fece barattare oro con farina, castagne ed acquavite. Quella sera, furono accesi dei grandi falò, visibili in tutta la pianura, fino al mare, e il suono dei corni e dei tamburi echeggiava lungo i pendii delle valli. Lasciò i suoi uomini gozzovigliare, sapendo che l’ avevano seguito in un lungo e faticoso cammino e si incamminò nuovamente verso la cima del monte. Giunto in vetta si fermò a contemplare la volta stellata. Egli conosceva  le stelle, una ad una, perché era anche uomo di scienza, ma quel cielo gli parve cosparso di stelle mai viste: da quella vetta poteva osservare le stelle fino all’ orizzonte.  Fu durante il ritorno dalla cima che vide, avvolta da un tenue chiarore, la stella più bella della serata. All’ ingresso di una grotta,  vide un profilo di donna appisolata su una panca. Il profilo della figura compariva e si smorzava a seconda dell’ intensità con cui il vento ravvivava le braci di un fuoco ormai morente. Si diresse verso quella sorgente di luce con la mano sull’ impugnatura della spada, quando ad un tratto inciampò in una pentola e, cadendo, il rumore della spada che sbatteva  contro le pietre risvegliò pecore e capre,  che cominciarono a belare.

 “ Chi sei tu, che osi arrivare con le tenebre, dove nessuno oserebbe neppure alla luce del sole”,  gridò una voce di donna dall’ interno della caverna.

 “Non avere timore, non sono un brigante”,  rispose il barbaro.

“ Non sai che questo non è luogo per gente comune”,  replicò la donna.

“ Non sono una persona comune, sono un principe e vengo da molto lontano. Sono stato attratto fin qui dalla tua bellezza” , disse il barbaro ora che si era avvicinato ed aveva riconosciuto nella donna la Krivapeta.

“Vattene, sono  già promessa ad un uomo delle valli” , rispose con tono perentorio la Krivapeta. 

Il barbaro non insistette e scese verso l’accampamento. Lungo la strada gli risuonavano nelle orecchie quelle ultime parole: “Sono già promessa ad un uomo delle valli”. Pensò, tra sè e sè: sono più potente di qualsiasi uomo delle valli, la conquisterò, dovessi sfidare a duello il mio rivale.

Il suo rivale, Miha, non era uomo da duelli o discendente da stirpe nobile o guerriera; era solamente un valligiano, dal cuore semplice e generoso. Forse per questo si era innamorato della Krivapeta, e per questo la Krivapeta sembrava ricambiare il suo sentimento; per questo veniva anche deriso dai suoi amici, i quali consideravano le Krivapete alla stregua di esseri selvatici. Nel frattempo il barbaro non stette a guardare; si recò con i suoi uomini a Cividale, ed acquistò scarpe e vestiti per la Krivapeta. Ritornato sul monte, si recò alla grotta, dove depose i suoi doni, chiedendo alla Krivapeta la sua mano. La Krivapeta non disse nulla e non uscì dalla grotta.  Quando il barbaro si allontanò la Krivapeta, colpita dalla bellezza e dai colori delle vesti  ricevute in dono, provò ad indossarle. Uscì dalla grotta e si specchiò in un piccolo laghetto: “Che splendore, disse, non sembro neppure una  Krivapeta”. 

Quelle ultime parole da lei proferite, sfuggite quasi inconsciamente,  l’ avevano turbata, come pure il barbaro ed i sui doni.  Cosa stava succedendo alla Krivapeta? Forse per la prima volta nella loro storia, una di esse  si era trovata di fronte a simili problemi; del resto, era stata lei a volerli, attendendo in strada il barbaro e provocandolo con la sua bellezza. Ora la Krivapeta doveva decidere tra Miha ed il barbaro e, a dire il vero, aveva già deciso,  affascinata dalla bellezza dei doni ricevuti e dalla stirpe nobile del suo futuro marito. Sposandolo sarebbe diventata principessa, lei, una Krivapeta! Prima di addormentarsi, chiese consiglio a quella che era stata la più saggia di tutte le Krivapete, vissuta molti secoli prima, e venerata da queste come una santa. Quella notte stessa, essa le apparve in sogno e le disse: ” Ricorda che le Krivapete, quando si sono sposate, hanno preso per marito solo uomini delle valli, i quali da sempre convivono con noi, ci conoscono, e, se ci amano, possono darci anche dei figli. Ricorda, se sposerai il barbaro non sarai più Krivapeta”.  La Krivapeta, che in cuor suo aveva già deciso, non diede troppo peso a quelle parole; neppure il barbaro si preoccupò di chiedere ai valligiani per quale motivo chiamassero quella donna Krivapeta.

Così, il matrimonio fu deciso. La mattina del giorno seguente si sarebbero sposati sulla cima del monte Matajur.  

Le nozze

Il barbaro, impaziente, salì per primo e di buon mattino sulla cima del monte. Vide il sole sorgere e squarciare la nebbia che copriva i paesini abbarbicati sulle pendici dei monti. I suoi uomini accendevano i fuochi per preparare il banchetto nuziale. La festa cominciava!

La notte della Krivapeta, invece,  fu tranquilla, in quanto fu presa da un sonno profondo, che durò fino al mattino. Non fu così il risveglio! Quando questa si sollevò dal proprio giaciglio e mise i piedi a terra, le sembrò di vedere due mani che volevano  afferrarla per le caviglie. Spaventata, cacciò un urlo e sollevò i piedi, ma le mani salivano con essi. Guardò stupefatta e terrorizzata quelle mani: non erano mani, erano le dita dei suoi piedi, o meglio erano i suoi piedi rivolti all’ indietro, cioè tornati dritti! Che confusione! Tremante, ora pensò alla  profezia  della sua antenata,  a quelle parole: ” Se sposerai il barbaro, non sarai più Krivapeta”.  Ora i suoi piedi erano diventati come quelli di tutti i comuni mortali, ora non era più Krivapeta. Passato il terrore e lo stupore iniziale, si fermò a lungo ad osservare i propri piedi: non li aveva mai visti prima d’ora! Si domandò come era potuto avvenire questo, non vedendo né ferite, nè provando alcun dolore. Nel frattempo si era quasi scordata che quello era il giorno del suo matrimonio. Si vestì, si pettinò, perse del tempo per indossare le scarpe, che mise dapprima a rovescio, ma alla fine capì quale era il verso giusto. Pronta, iniziò la salita verso la cima del monte, ma ad ogni passo fatto cadeva, inciampando nel terreno. Non era abituata a camminare con quelle protuberanze davanti ai piedi. Sulla cima del monte, intanto, il sole cominciava a picchiare, ed il barbaro, preoccupato per l ‘ assenza della promessa sposa, mandò due uomini a cercarla. Trovatala, essa raccontò  di essere caduta e di aver rotto i piedi, per cui non era in  grado di camminare. La misero in sella ad un cavallo e la portarono sulla cima del monte, dove furono celebrate le nozze. “Ora sei la mia principessa”, le disse il barbaro, “ Ti condurrò oltre quelle montagne, da dove sono arrivato e dove si trova il mio regno”, e le indicò con la mano i monti che aveva attraversato  e verso i quali avrebbero dovuto fare ritorno. Sulla cima del monte si fece festa, tutti cantarono e ballarono, ed ai valligiani che maliziosamente chiedevano al barbaro perché la sposa non ballasse, il barbaro ingenuamente rispondeva che aveva male ai piedi. A quella risposta tutti ridevano, fuorché la Krivapeta che capiva il senso della domanda e le risa seguenti alla risposta.

Finiti i festeggiamenti, il barbaro volle far ritorno a casa e disse alla Krivapeta di raccogliere tutti i suoi beni e di portarli con sè. La Krivapeta, che non possedeva nulla, aprì i recinti e liberò tutti i suoi animali; chiese al barbaro un cofano, ottenutolo, lo riempì, lo chiuse a chiave e mise la chiave nel suo seno.

“ Quali tesori porti con te che custodisci tanto gelosamente la chiave?”, le chiese il barbaro.

“Non sono tesori”, rispose la Krivapeta, “ E' il mio passato” .

“Dimentica il passato, ora ti aspetta un futuro da principessa, incamminiamoci!” e così dicendo, il barbaro sollevò la spada verso il capo carovana, e la carovana si avviò. Il passato, la Krivapeta l’ aveva dimenticato, e velocemente, come pure aveva dimenticato Miha il quale, per la disperazione, non si era presentato nè alle nozze nè alla festa nuziale. Ora, la Krivapeta, stretta sul cavallo assieme al barbaro, si dirigeva verso il suo futuro.

  Alla reggia del barbaro

Dopo giorni di cammino giunsero finalmente alla reggia del barbaro. La Krivapeta non aveva mai visto nulla di simile in vita sua: un castello enorme, con tante  torri, tante scale, stanze, porte e finestre. 

Nulla a che vedere con la sua caverna che aveva un solo ingresso che fungeva anche da finestra! Il barbaro ordinò ai suoi servi di preparare la  camera nuziale, e fece scaricare dai carri  le merci acquistate durante il lungo viaggio, compreso il cofano della Krivapeta. Questa volle che il cofano venisse sigillato affinché nessuno potesse aprirlo. Così fu!  Il barbaro chiamò il fabbro di corte e fece mettere al cofano dei sigilli dorati. La Krivapeta, curiosa, volle visitare il suo castello, ma non potè salire per tutte quelle scale. Ad ogni passo, inciampava in uno scalino. Il barbaro, si accorse di ciò, e chiese alla Krivapeta cosa avesse. “Hai già dimenticato che  ho rotto le gambe”, gli disse la Krivapeta, “Abbi pazienza, guarirò”.    

Il barbaro, invece, fece chiamare il medico di corte, affinché curasse le gambe della Krivapeta, ma questa lo cacciò in malo modo. Il barbaro, indispettito per quel comportamento così poco principesco, volle delle spiegazioni ,  ed insistette affinché il medico la visitasse. Se il barbaro era un principe, che poteva comandare, sua moglie era una Krivapeta, non disposta ad obbedire: fu così che scoppiò la prima lite a corte, ma alla lunga la Krivapeta, stanca per il lungo viaggio ed a disagio, così lontana da casa, cedette. Non si vece visitare, ma disse al barbaro: ”Apri il mio cofano ed avrai la spiegazione”.  Il barbaro, che sin dal primo momento avrebbe voluto conoscere il contenuto di quel cofano, non esitò e chiamò nuovamente il fabbro di corte affinché togliesse i sigilli appena apposti. Il fabbro incominciò ad armeggiare attorno al cofano e si capiva dal suo fare che non gradiva quelli che riteneva i capricci della nuova arrivata. Tolti i sigilli, il barbaro fece allontanare tutti i suoi sudditi dalla stanza e volle aprire il cofano con le sue stesse mani. La Krivapeta mise le mani nel proprio seno ed estrasse  la chiave consegnandola al marito, il quale, aperto il cofano urlò: “Scarpe! Scarpe vecchie e rotte! Ho fatto mettere dei sigilli d’ oro per custodire delle scarpe vecchie e rotte” . La Krivapeta gli disse: ”Osservale bene”.

Il  barbaro le guardò, le rigirò, provò a spezzare un tacco ad una scarpa, pensando contenesse qualcosa, ma non vene a capo di nulla.

“Ti ho detto di guardarle bene” disse perentoria la Krivapeta, quasi scocciata dal fatto che il barbaro non avesse  notato nulla di strano.

A quella frase, che giungeva come un ordine a chi non era abituato a riceverne, il barbaro, quasi cercasse aiuto contro quella donna che gli sembrava cocciuta e testarda, urlò: “ Il ciabattino, venga il ciabattino di corte, immediatamente! ”. Il ciabattino, che nel frattempo, allertato dal fabbro,  si era appostato, assieme a tutta la servitù , nei pressi della stanza reale a seguire la scena, arrivò in un baleno, e su comando del barbaro controllò tutte la scarpe.

“ Che io sia dannato per l’ eternità se ho visto qualcosa di simile in vita mia” disse il ciabattino.

“Parla! Parla! Dimmi cosa noti”,  incalzò impaziente il barbaro .

“Sembrerebbe che chi ha calzato queste scarpe avesse camminato all’ indietro, proprio come i gamberi”,  e, prendendo una scarpa, il ciabattino mostrò al principe come tutte le scarpe  avevano le punte integre, al contrario dei talloni, che erano tutti consumati.

Il barbaro fece allontanare il ciabattino, minacciandolo di morte se avesse proferito solo una parola su quello che aveva appena scoperto, poi chiese alla Krivapeta: “ Sono tue” ?

La Krivapeta rispose di sì e, piangendo,  raccontò al barbaro tutta la storia della Krivapete.  Il barbaro ascoltò in silenzio e le credette perché ora capiva tutte le illazioni e le risa dei valligiani. Rimproverò la Krivapeta per  avergli  tenuto nascosto il suo segreto e le disse: “Io sono un principe e devo dare un erede al  mio popolo, che sappia  comandare, cavalcare, e, se serve, combattere. Cosa direbbero i miei sudditi se da te nascesse un bimbo con i piedi a rovescio? Mi deriderebbero! A quelle parole la Krivapeta si sentì offesa e si rinchiuse in una stanza, lasciando il barbaro dormire da solo nella camera nuziale. Anche se la profezia le aveva predetto che dopo il matrimonio non sarebbe stata più Krivapeta, riuscì egualmente a compiere un gesto degno di tutta la sua stirpe,  riscattando tutte le Krivapete, anche se in modo diverso da quello che era stato il suo intento iniziale.

La fuga 

 Nella notte fuggì dal castello, in sella al  cavallo del barbaro, il quale, avvertito del fatto, non diede ai suoi uomini l’  ordine di inseguirla. Al barbaro, erano rimaste solamente le sue scarpe, che rimise nel cofano e lo fece sigillare nuovamente e definitivamente con la massima soddisfazione del fabbro. La Krivapeta, dopo un lungo cammino, ritornò nelle valli e chiese di Miha. Mai una Krivapeta avrebbe fatto un gesto simile. Le dissero che Miha,  per il dispiacere,  aveva deciso di partire per qualche terra lontana, oltre l’ oceano. La Krivapeta tornò ad abitare nella sua grotta sul Matajur, non si risposò e non ebbe  figli. Nessuno seppe mai che sotto le sue lunghe vesti i suoi piedi si erano raddrizzati, perchè lei continuava a camminare in quel modo strano, come tutte le Krivapete, in quanto a quei piedi nuovi non si era mai abituata. Così, per giorni e giorni ancora, la gente continuò a vederla salire, barcollante, sulla cima di quel monte, e da lassù, con le spalle rivolte verso quel mondo che l’ aveva ripudiata, scrutare verso quella sottile linea di mare, aspettando che tornasse colui che aveva ripudiato.    

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