Dino  e  gli  Skratiaci

 

 

Quando i primi deboli raggi di sole si posavano sulle guance di Olga ed il gatto che dormiva sopra il suo letto cominciava a stiracchiarsi, Olga capiva che era giunto il momento di abbandonare il suo  tiepido giaciglio. Olga, che era una dormigliona, quando giungeva il momento di recarsi a scuola riusciva sempre a svegliarsi in tempo per prepararsi e per non perdere l’ appuntamento con il suo treno. Per non correre questo rischio, si presentava sempre in anticipo  ad attenderlo, ed  i vicini, vedendola  ogni giorno immobile davanti a quel cortile,  le gridavano :“ Olga, non aspettare  che arriverai tardi a scuola! ”Olga si girava, facendo intendere che aveva udito, ma  restava ferma sui suoi passi: quel treno era troppo importante per lei! Finalmente, dopo una lunga attesa, si capiva che stava arrivando. Il primo ad accorgersene era il cane, che cominciava, come sempre, ad abbaiare  ed a tirare la sua catena fino quasi a strozzarsi;  poi, quando si udiva chiaramente il suo fischio, anche Olga gli correva incontro felice: quel treno si chiamava Dino e la avrebbe accompagnata a scuola, sia all’andata che al ritorno, per tutto il periodo scolastico.

 

 Dino era sempre così: fischiettante e ritardatario, come i nostri treni, ma soprattutto allegro e  spensierato. I quattro chilometri che  separavano il paesino di Dino ed Olga dalla scuola sembravano inesistenti tante erano le cose che si raccontavano cammin facendo. Al mattino, per colmare il ritardo,  il loro passo era spedito e il percorso preso era quello più breve. Al ritorno, invece, il percorso  non era mai lo stesso, se non  fino a quel paracarro dove Dino andava a riprendere la sua chewingum  che aveva  lasciata appiccicata prima di entrare in classe. La maestra era severa ed in aula non si poteva masticare la gomma. Olga e Dino frequentavano la stessa classe nonostante questi fosse due anni più vecchio di lei.  Dino era rimasto orfano di madre,  ed il padre si era recato a lavorare all’ estero per sfamare la famiglia. La vecchia nonna si era presa cura di lui  e questa situazione gli aveva procurato un po’ d’ indipendenza che si era trasformata, sotto il profilo scolastico,  in due bocciature.  Olga ammirava Dino, oltre che per la sua simpatia,  per la sua  forza e per il suo coraggio, e se Dino a scuola non  capiva, o non voleva capire nulla, questo per lei non contava, tanto era  affascinata dalle sue prodezze: Dino era il suo compagno di giochi preferito! I giochi iniziavano appena usciti dall’ aula quando Dino poteva aprire la sua cartella lontano dallo sguardo della maestra. Quella cartella conteneva di tutto: i fiammiferi,  la fionda, il temperino, lo spago, il carburo, persino dei sassi e, qualche volta, anche il sussidiario. Tutto questo, anche se rendeva la piccola cartella di cartone più pesante, rendeva meno pesante la scuola! Così, al ritorno, c’ era solo l’ imbarazzo della scelta su cosa estrarre dalla cartella. I fiammiferi Dino non li usava per accendere fuochi, ma per costruire i missili. Dino prendeva quattro fiammiferi e avvolgeva le loro capocchie con della carta stagnola. In quei tempi, l’ unica carta stagnola disponibile era quella che avvolgeva le cioccolate che il babbo gli portava quando tornava, per le ferie, dalla Svizzera. Quando il manufatto era pronto e si reggeva in piedi,  proprio come un missile, Dino dava fuoco alla base ed il tutto balzava in aria con un sibilo lasciando dietro di sè una scia di fumo.  I fiammiferi venivano usati anche per un gioco molto pericoloso che  consisteva nel fare esplodere le scatole ripiene di carburo. Siccome il carburo non veniva dato ai ragazzini, questi dovevano prenderlo, in qualche maniera, a chi ne aveva: nel caso di Dino, la vittima era un meccanico, che lo usava per creare il gas per la saldatura. Il carburo, affinché sprigionasse il gas, veniva inumidito con la saliva e poi ricoperto con un barattolo di latta capovolto. Al barattolo veniva praticato, sulla base, un piccolo forellino che serviva da punto di accensione e veniva tenuto chiuso con un dito. Quando si era sviluppato gas a sufficienza si toglieva il dito dal foro e si dava fuoco. La scatola saltava in aria con una forte detonazione. In questo caso la scuola era di grande aiuto a Dino  in quanto, con le pagine dei quaderni arrotolate ed accese, rIusciva a portare il fuoco nei pressi del foro sulla scatola  evitando di farsi del male alle mani. Un altro gioco, un poco meno pericoloso, era quello del cavallo: un lungo spago veniva posto sul collo di Dino e poi fatto passare sotto le ascelle a mo’ di briglia. Ora Dino era un cavallo! Olga, da dietro, tenendo in mano i capi di questo spago, lo comandava e lo dirigeva lungo il percorso, tirando l’ una o l’ altra estremità. Il gioco si faceva più avvincente quando Dino si faceva bendare. Succedeva spesso che Dino partisse tanto velocemente da strappare di mano le redini ad Olga. Allora Dino correva senza alcun comando e la corsa terminava con un capitombolo in qualche buca o con una capocciata contro qualche ramo. Ma queste cose non scalfivano il suo forte fisico;  Dino aveva la testa dura, come amava spesso ripetere la sua maestra. Quando arrivava l’ autunno, ed in mezzo ai campi di granoturco venivano eretti i covoni con i fasci di canne di granoturco tagliate, il più grande divertimento consisteva nell’ abbatterli. Dino prendeva  una breve rincorsa e con una forte spallata faceva  crollare il covone. Olga restava incantata di fronte a tanta forza, e di forza Dino ne aveva veramente, anche perché altrimenti come avrebbe fatto a trasportare la sua cartella?  Spesso, la cartella di Dino era piena di sassi. Il loro peso l’ aveva deformata e le bretelle di pezza erano state cucite e ricucite dalla nonna e, nonostante le varie prediche, sembrava che di quei sassi Dino non potesse fare a meno. A poche centinaia di metri dalla strada si trovava una “rupa”, come si dice da queste parti, cioè una profonda voragine nel terreno. In questa “rupa”,  come in tutte le altre, vivevano gli skratiaci, piccoli esseri, simili ad un bimbo, molto dispettosi , dotati però di doti soprannaturali. Si diceva che diventassero “skratiaci” i bimbi morti senza avere ricevuto il battesimo. Nessuno li aveva mai visti, però si sapeva per certo che esistevano.

Così, al ritorno, abbandonando la strada principale, Olga e Dino raggiungevano un prato dove si trovava una “rupa”,  e lì iniziava il divertimento. Un tempo anche in quel prato c’ erano dei sassi, ora non ce ne sono più: sono tutti nel fondo della “rupa”! Ecco il perché della necessità di quel trasporto così pesante. Dino ed Olga si affacciavano all’ ingresso della “rupa”, che nella parte iniziale era quasi orizzontale, e lanciavano all’ interno un sasso.

 

 Poi in silenzio ascoltavano il rumore secco dei rimbalzi, contro le pareti della cavità, rumore che si affievoliva sempre più fino a scomparire del tutto. Però, qualche volta…super bingo! Dal fondo della “rupa” risuonava un sonoro “dong” :  signficava che avevano centrato una delle pentole nella cucina degli “skratiaci”.  A volte si sentiva un rumore di vetri rotti, quando veniva centrata la vetrina, od un rumore sordo, se il sasso cadeva sul letto. In quei momenti se ne stavano zitti con le orecchie tese a percepire anche il minimo rumore  e pronti a fuggire se qualche “skratiac”  si fosse svegliato. Sì, perché gli “skratiaci” erano esseri notturni che dormivano di giorno e gironzolavano per i boschi di notte. Un giorno Dino tirò fuori dalla sua cartella un vecchio mestolo in rame dicendo ad Olga di essere sceso nella “rupa” fino alla cucina degli “skratiaci” dove l’ aveva preso. Se Olga rimase ammirata da tanto coraggio, non fu così per la nonna di Dino che, preoccupata per il pericolo corso dal nipote,  gli proibì di recarsi nuovamente nella “rupa”.  

Sulla veridicità  del fatto  le rimase comunque qualche dubbio, sapendo che Dino aveva una paura tremenda del buio. Dino questo non l’ aveva mai raccontato a nessuno, neppure ad Olga, alla quale confidava tutti i suoi segreti, però la nonna, che lo conosceva da sempre, sapeva che alla sera bisognava accompagnarlo fino al suo letto dove, solo dopo che si era ficcato sotto le coperte fino alla testa, si poteva chiudere la luce. 

Una sera d’ autunno  Dino ed Olga si trovavano, assieme alla nonna, nella casa di un vicino dove si erano recati a sfogliare le pannocchie di granoturco. Quella di aiutarsi vicendevolmente nei lavori era una consuetudine tipica nei paesini delle Valli del Natisone.  Il lavoro era monotono. Se la pannocchia era grande si toglievano tutte le foglie, fuorché tre, che servivano per appendere la pannocchia, assieme ad altre, ad un filo di ferro formando una treccia. Se la pannocchia era piccola si levavano tutte le foglie e questa veniva usata a breve.  Così, per ingannare la monotonia del lavoro, ognuno raccontava qualcosa, e mentre nel forno si cucinavano le castagne, la serata si faceva allegra. Olga non potè fare a meno di raccontare dell’ impresa di Dino, il quale era riuscito a scendere fino nella cucina degli “skrat” dove aveva preso quel mestolo di rame. Così facendo, diede involontariamente il “la” ai  più anziani, i quali, a dire il vero, non ne avrebbero avuto bisogno, in quanto, in quelle occasioni, era consuetudine parlare di simili argomenti. Fu così che per tutta la sera si parlò di Skratiaci,

di morti, di fantasmi, di fuochi che di notte si accendevano improvvisamente lungo la strada,

 di cani con gli occhi di fuoco che ti seguivano, e di civette che annunciavano con il loro canto la morte.  Un vecchio addirittura raccontò che, in mezzo al bosco, era stato circondato dagli Skratiaci e, pur essendo stato alto e robusto, aveva avuto il suo bel da fare per liberarsi; un altro invece disse che gli Skratiaci l’ avevano tirato per i piedi  fuori dal letto, un altro ancora  li  aveva visti camminare sul soffitto della sua camera. All’ udire quei racconti Dino ed Olga, pur sorridendo, venivano scossi da qualche brivido. Forse loro qualche conto in sospeso  l’ avevano con quei folletti, Dino in particolare, e poi, la sera certi discorsi sortiscono l’ effetto sperato. Nel frattempo, per completare l’ atmosfera, aveva cominciato a soffiare un forte vento e minacciava un temporale, stranamente fuori stagione.  Olga volle tornare a casa prima che cominciasse a diluviare. La nonna di Dino disse pure a lui di rientrare, così avrebbe accompagnato, per un tratto di strada, pure Olga. Dino avrebbe voluto rifiutare quell’ invito, sapendo che, lasciata Olga, avrebbe dovuto proseguire fino a casa  al buio da solo e lì avrebbe aspettato la nonna. I paesi di una volta erano privi di illuminazione, e, nel migliore dei casi, solo nella piazza principale c’ era un palo in legno con alla sommità una debole lampadina. Nelle case, le poche luci presenti venivano spente il più presto possibile e la televisione era ancora lungi dall’ arrivare. Dino fece finta di non avere udito nulla quando una voce di vecchio tuonò:  “Dino! Obbedisci la nonna!”. In quei tempi, gli ordini degli adulti venivano dati una sola volta, e non c’era verso di discuterne senza andare incontro a qualche  scapaccione. Il vecchio era intervenuto, volendo fare le veci di padre, sapendo che la nonna di Dino era troppo indulgente con quel nipote che le era stato affidato. Dino si trovava tra l’ incudine ed il martello. Avrebbe voluto ritornare a casa con la nonna, ma come poteva un maschio rifiutare  un favore  verso il gentil sesso? Come avrebbe giustificato il rifiuto a tutti i presenti? Dino ora doveva scegliere se morire di paura o di vergogna.  A toglierlo, si fa per dire, da quell’ imbarazzo fu Olga, la quale gli disse : ”Andiamo” e,  prendendolo per mano, lo dovette quasi sollevare dal mucchio di pannocchie sul quale era seduto. Partirono di corsa e Dino si trovò subito solo in quanto la casa di Olga, che non era lontana, fu raggiunta in un attimo;  salutata Olga disse :”Uno due tre…via”. Ora Dino correva come un forsennato sull’ acciottolato che ricopriva le strette viuzze del paese evitando, con balzi acrobatici, i vari oggetti che incontrava lungo la strada. Urtò qualcosa, inciampò e cadde per terra, ma si rialzò subito e riprese a correre senza emettere un lamento. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come se fosse inseguito da qualcuno; ad un certo punto, per farsi coraggio, iniziò a cantare a squarciagola, tanto…se si fosse affacciato qualcuno per rimproverarlo, sarebbe stato contento. Era giunto finalmente davanti alla porta di casa. Una volta, qui nelle valli, le porte delle case non si chiudevano con la chiave, e quando questo veniva fatto, era quasi una cosa simbolica, in quanto la chiave, che si trovava nella parte interna della serratura della porta, era sempre raggiungibile tramite una finestra della porta stessa che veniva lasciata aperta. Dino esitò un attimo prima di infilare la mano in quella finestrella buia. Temeva che all’ interno della casa ci fosse qualche “skrat”  che lo avrebbe afferrato e trascinato dentro, attraverso le sbarre di quella finestrella. Puntò saldamente i piedi contro la base della  porta e,  tenendosi con una mano per la maniglia,  con l’ altra, infilata all’ interno, girò velocemente la chiave.  La porta si aprì. Ora bisognava entrare nella stanza buia ed accendere la luce.  Approfittò della luce di un lampo per individuare l’ interruttore, poi di corsa all’ interno,  tastando con le mani la parete, finchè un “clic” fece tornare, oltre la luce, la normalità al cuore di Dino, che stava  battendo all’ impazzata. Dino scrutava all’ interno della casa, soprattutto in quelle zone non illuminate, per accertarsi che non ci fosse nessuno, e quel nessuno, sappiamo a chi si riferisce. Intanto il rumore della pioggia che aveva iniziato a cadere a dirotto era coperto solo dai tuoni e dalle folate di vento che si facevano via via più impetuose. Dino si era messo accovacciato in un angolo della cucina in attesa della nonna ed osservava le tende e la lampadina mosse dal vento. Qualche porta si era aperta al piano superiore, dove c’erano la camere, ma Dino non sarebbe salito a chiuderla perché per raggiungerla  bisognava  salire lungo una scala buia posta all’ esterno della casa. In quei tempi, non tutte le stanze delle case erano illuminate e si usavano deboli  lampadine per non consumare troppa corrente.  Fra le stanze non illuminate, in quella casa, c’ era anche lo spazzacucina nel quale ora Dino scrutava attraverso un vano nel muro che faceva anche da porta. Aveva notato nell’ oscurità  di quella stanzetta qualcosa di strano. Avanzò lentamente e vide all’ interno una luce ondeggiare.

Gli sembrava che due occhi infuocati lo stessero osservando. Si spostò leggermente ma quegli occhi lo seguivano: fissavano proprio lui!  Aveva ancora nelle orecchie i racconti uditi quella sera!  Chiamo’: “ Nonna! ”, ma non rispose nessuno. Non potendo reggere a lungo quella situazione afferrò un ferro chi si trovava sul bordo del fornello e si avvicinò verso quella fonte luminosa, deciso ad affrontarla.  Fatti pochi metri si accorse che quegli occhi non erano altro che una luce che proveniva riflessa da un mestolo in rame che il vento faceva oscillare. “Che stupido! ”,  disse ridendo tra i denti. Quella risata aveva scaricato in Dino un po’ di tensione e,  ritrovato il coraggio, entrò nella penombra di quella stanza per osservare  da vicino quel mestolo. Era il mestolo rubato nella casa degli skratiaci! Sembrava nuovo. La nonna di Dino  l’ aveva lavato con un miscuglio di aceto e farina,  e poi grattato con la paglietta fino a renderlo splendente. Dino lo usò per prendere dal secchio un sorso d’ acqua; le castagne abbrustolite che aveva mangiato quella sera, gli avevano fatto venire sete. Bevette e ripose nuovamente il mestolo agganciando l’ estremo curvo del manico al bordo del secchio anch’esso in rame. “Dong”- fece il mestolo battendo contro il secchio. Quel dong fece sobbalzare Dino, in quanto era simile a quello che proveniva dalla “rupa” quando i suoi sassi colpivano la cucina degli “skrat”. Quel ricordo gli aveva fatto ritornare la paura. Avrebbe voluto essere almeno nel suo letto, ma sapeva che non sarebbe salito su per quelle scale esterne al buio. Improvvisamente la stanza si illuminò ed un gran fragore scosse le mura. Dino non riuscì neppure a rendersi conto di cosa fosse successo che  già un altro timore, ancor più grande, faceva impazzire nuovamente il suo cuore. Un fulmine caduto nelle vicinanze aveva fatto mancare la luce. Ora Dino se ne stava accovacciato in un angolo della stanza controllando, ad ogni minimo chiarore dei lampi, l’ interno. Il vento, che soffiava impetuoso,  aprì una delle malandate finestre della casa, facendo gonfiare come una vela il tendone appeso sopra la finestra. La tenda ondeggiava come se cento mani la spingessero per passarvi attraverso. Si udì un rumore di oggetti che cadevano dalla mensola della  finestra. Forse stava entrando qualcuno! Le folate di vento sospingevano e rilasciavano quella tenda che trascinava con sé ogni oggetto posto nelle vicinanze. Dino, ora più che mai, aveva la sensazione che qualcuno volesse entrare; a quelle cento mani ora seguivano altrettanti piedi, tanti erano i rumori che si accavallavano. Dino, terrorizzato, cominciò ad urlare : ” Fuori di qui, maledetti “skratiaci”, fuori di qui!”. Corse verso lo spazzacucina, cercò il mestolo e, trovatolo, tentò di gettarlo fuori attraverso una finestra ma, nel buio, sbagliò la mira ed il mestolo  ricadde sul pavimento della cucina con diversi “dong”. Nel frattempo,  attraverso la finestra gli  “skrat” entravano in continuazione, picchiando addirittura sui vetri e trascinandosi dietro foglie e rami d’ albero. Dino cercava invano il mestolo sul pavimento, per lanciarlo nel cortile, sperando che gli “skrat”, che erano venuti a riprenderselo, l’ avrebbero inseguito, come un cane insegue un oggetto lanciato dal suo padrone. Raccolse, sul pavimento bagnato dalla grandine che si scioglieva, vari oggetti, quando inaspettatamente si trovò tra le mani una candela. Che fortuna! Si diresse verso la cappa del focolaio dove  c’erano i fiammiferi. Tastò tutto intorno alla cappa cercandoli ma non nè trovò. Si ricordò che era stato proprio lui a prenderli quella mattina, ed ora erano nella sua cartella in camera. Dino non ce la faceva più a stare in quella casa maledetta, così decise di abbandonarla e tornare dalla nonna. Si girò cercando di individuare da che parte stesse l’ uscio, quando vide una luce venirgli incontro. Ora gli sembrava veramente di impazzire e cominciò ad urlare: “Nonna! Nonna!”.-  “Sono qui ”, gli rispose una voce da dietro la luce, “Sorreggimi il lumino”. Era la nonna che aveva fatto rientro a casa. La mano di Dino tremante  il lumino tenendolo stretto come se fosse il più grande tesoro al mondo. “Fammi luce”, disse la nonna. La nonna prese dei ramoscelli d’ ulivo che erano appesi al muro, li mise su una paletta di ferro e la appoggiò sul davanzale della finestra. Ora cercava i fiammiferi per dare fuoco a quei rametti. Vedendo che la nonna cercava inutilmente sulla cappa, Dino, che sembrava ormai privo di  volontà, confessò spontaneamente il furtarello, e le disse : “Non cercarli, sono nella mia cartella”. In un altro momento non avrebbe fatto così candidamente una confessione, ma quella serata  lo aveva fiaccato. La nonna senza dire nulla, aprì una vecchia scatola metallica, la ribaltò, e fra le varie cianfrusaglie comparvero anche diverse scatole di fiammiferi. La nonna ne aprì una, estrasse un fiammifero, lo accese, e diede fuoco a quei ramoscelli d’ ulivo. Come riescono le circostanze a cambiare le persone! Dino e la nonna, in quella circostanza di bisogno e di paura, si erano svelati l’ un l’ altro cose che in un altro momento avrebbero tenuto segrete. Mai la nonna avrebbe immaginato che fosse Dino a farle perdere scatole intere di fiammiferi, cosa che lei considerava una sua sbadattagine, come neppure Dino avrebbe mai immaginato che la nonna possedesse una simile riserva segreta di fiammiferi.  Con tutto quel ben di Dio a disposizione Dino avrebbe potuto costruire centinaia di missili o fare esplodere con il carburo  tutti quegli enormi barattoli di marmellata che raccattava in un cumulo di immondizie, nei pressi del paese. Dino osservava i ramoscelli d’ olivo che il fuoco stava consumando rapidamente mentre la nonna aveva cominciato a snocciolare la corona del Santo Rosario. Il temporale, nel frattempo, stava diminuendo d’ intensità. Chissà perché, ma il metodo della nonna si dimostrava sempre efficace in tali occasioni. La nonna accese una candela ed accompagnò Dino fino alla sua camera. Dino aveva tenuto con cura la mano accanto alla fiamma tremolante della candela per evitare che il vento la spegnesse salendo le scale. Sapeva che quella fiammella sarebbe stata la sua compagna per quella notte. Ora Dino era coricato a letto e fissava, quasi timoroso, l’ ardere incerto di quella candela che alle lunghe fiammate alternava una luce morente, quasi volesse dirgli che era ora di dirsi buonanotte e di chiudere gli occhi. 

Dino però non voleva chiudere gli occhi, non era ancora abbastanza tranquillo per addormentarsi, e pensava alla serata appena trascorsa, alle sue stupide paure che avevano alimentato spropositatamente la sua fantasia tanto da fargli credere che fosse realtà.  Dino pensava anche all’ indomani, alla sua cartella non pronta, non tanto per i compiti non fatti e per libro aperto che giaceva ai bordi del letto, perché altre erano la cose che mancavano in quella cartella. I suoi progetti per l’ indomani, Dino li aveva pensati da un pezzo, ma solo oggi, dopo avere parlato a lungo con Olga, era riuscito a convincere pure lei.

 Chissà se tale nottata aveva stravolto anche Olga! Non sappiamo se si spense prima Dino o la candela, certo è che quest’ ultima resistette fino alla fine. Di essa, al mattino, rimase solo un mucchietto di cera depositato sul fondo del bicchiere che la sorreggeva. Dino, al contrario, si svegliò, come sempre pieno di energia, ed aveva dimenticato completamente tutto quello che era successo nella serata precedente,  anzi… aveva capito che la  ragione deve dominare l’ impulso e la paura.  Quella che iniziava si presentava  come una bella giornata; il sole aveva iniziato il suo cammino in completa solitudine e sarebbe stato così per tutta la giornata. Il temporale della notte aveva fatto sgomberare dal cielo ogni nuvola, e quello sembrava il giorno ideale per il piano di Dino. Preparò la cartella  e si diresse assieme ad Olga verso scuola. Stranamente  non si fermò, come era solito fare, lungo il percorso ad infastidire le oche ed i tacchini, per poi farsi inseguire da questi e difendersi dalle beccate facendosi scudo con la cartella. Anche quando giunse a scuola, appoggiò a terra la cartella con cura, anziché gettarla sul suo banco, come era solito fare.  Al ritorno da scuola, Dino ed Olga  si diressero verso una stradina che conduceva in montagna, ed arrivarono nei pressi di una grotta, una delle tante delle nostre valli.  Nelle grotte delle valli, o meglio nelle “rupe” c’ era di tutto. Nelle grotte c’ era la storia delle valli. C’ erano le testimonianze di chi per le valli era passato, di chi aveva occultato in quegli anfratti divise, armi, e, non si sa mai… qualche tesoro. Non dimentichiamo le guerre combattute in queste zone, le armi abbandonate da chi non voleva più combattere o  quelle occultate per evitare che venissero confiscate dalle autorità. Nelle grotte c’ era anche tutto quello che i valligiani volevano nascondere o di cui disfarsi. Anche la produzione clandestina di grappa necessitava di  nascondigli sicuri per gli alambicchi. Se poi tutto questo non c’era, nelle grotte senz’ altro c’ erano gli “Skratiaci” ed i loro oggetti, che incuriosivano sempre di più Dino. Se Olga ammirava Dino per le sue imprese, Dino aveva bisogno di qualcuno a cui mostrarle. Così, ad ogni impresa che compiva, ne progettava un’ altra più avvincente. Se era vero che Dino aveva trovato il mestolo nella cucina degli “skrat”, probabilmente nelle altre stanze ci poteva essere ancora chissà cos' altro! E questo altro attirava Dino, oltre tutti i pericoli, e stavolta non sarebbe andato da solo: aveva chiesto ad Olga di accompagnarlo. Giunti davanti alla grotta, Dino depose con cura a terra la sua cartella ed estrasse tre specchi. Olga lo osservava sorpresa ed incuriosita. Non riusciva a capire a cosa sarebbe servito uno specchio in mezzo al prato; Dino ne aveva estratti addirittura tre!   

“Prendine uno”, disse ad Olga, che ancora non comprendeva  l’ uso che doveva farne. Dino fissò bene a terra la sua cartella ed appoggiò contro di essa lo specchio più grande, puntandolo verso il sole in modo tale che il raggi solari riflessi penetrassero nella grotta. Poi, tenendo sotto braccio un altro specchio, invitò Olga a seguirlo nella grotta.  L’ ingresso della grotta era parzialmente ostruito da un grosso masso franato chissà quanti anni fa ed ora solo un bambino avrebbe potuto entrarvi. Si infilarono, trattenendo il respiro, attraverso una stretta fessura, ma dopo qualche metro  la grotta si fece sufficientemente ampia. Si inoltrarono seguendo il raggio di luce. Le goccioline d’ acqua, depositate sulle pareti colpite dalla luce dei raggi riflessi del sole, risplendevano come le luci di un' intera città.

 Dino, con il suo specchio, catturando un  raggio di sole  lo diresse ovunque nella grotta cercando di trovare qualcosa di interessante. Alla fine  fissò bene il suo specchio con dei sassi e raccogliendo la luce  proveniente dallo specchio esterno la fece rimbalzare sempre più profondamente verso l’ interno della grotta. Olga e Dino si addentrarono lentamente lungo il percorso umido e scivoloso. Di tanto in tanto, con qualche “ahi”,  Dino, che guidava Olga, le faceva capire che in quel punto bisognava abbassarsi. Quando la grotta sembrò cambiare direzione si fermarono. I loro occhi si erano adattati all’ oscurità e la tenue luce che ora gli proveniva era sufficiente per il loro cammino. Olga, seguendo l’ esempio di Dino in quello che sembrava diventato un gioco,  con il suo specchio provò ad intercettare il raggio di sole e ad illuminare la grotta, che si faceva sempre più ampia. 

Così, quello specchio, rompendo le tenebre, svelava ai loro occhi tutti i segreti di quella cavità. Erano momenti di attesa, in cui regnava un sacro e timoroso silenzio interrotto solo dal rumore delle gocce d’ acqua che  di tanto in tanto cadevano dalla volta della grotta nelle pozze d’ acqua sottostanti. Olga continuava a muovere lo specchio cercando di scoprire qualcosa ma, a parte qualche ragnetto che se ne stava immobile sulle pareti, la grotta sembrava vuota.Che delusione per Dino, che aveva sperato di trovare nella grotta chissà quale tesoro! 

Prese lo specchio dalle mani di Olga e lo piazzò con cura per proseguire nell’ ultima tappa. Olga, che cominciava ad avere paura, non volle seguire Dino che decise di proseguire da solo.  Olga, per non sentirsi sola,  parlava in continuazione a  Dino, ma questi non rispondeva tanto era preso dalla voglia di proseguire e di trovare qualcosa. Quando non riuscì più a sentire la voce di Olga, Dino si girò e si sedette su  una pietra chiamandola. Olga non rispondeva perché era impegnata  a rialzarsi dopo che era scivolata sul fondo viscido della grotta: aveva deciso di seguire Dino piuttosto che restare sola. Ora Olga vedeva nuovamente Dino il quale le chiese: “ Come va?”.  “Male!”, rispose Olga, “sono scivolata”. “Io invece mi sento come un re”, disse in tono ironico Dino. “Ci credo che ti senti un re, stai seduto su un trono e per giunta dorato”.  A quelle parole Dino sollevò le braccia che aveva appoggiato su due pietre e notò che assomigliavano ai braccioli di una sedia. “Un trono, certo è un trono! ” urlò di gioia Dino. “Sembra d’ oro”, disse nuovamente Olga “e chissà a chi è appartenuto”.  “Forse al re degli Skrat ”,   disse scherzando Dino ed urlò euforico : “ Re degli Skrat, se ci sei esci e siedi sul tuo trono!”Improvvisamente nella grotta si fece giorno. Qualcosa brillava sopra quel trono emettendo una luce dorata che rischiarava la grotta. “ E' una spada! ” gridò Olga “La spada di Attila! Ricordi i racconti di ieri sera?".  

  Restarono per un attimo incantati ad osservare quella spada d’oro, conficcata nella volta della grotta, che scintillava e rifletteva luce in tutte le direzioni.  Dino volle prenderla, ma esitò un attimo. Aveva sentito parlare della ferocia di Attila  che con un colpo solo tranciava di netto la testa dei suoi nemici, o li oltrepassava attraverso il petto, e preso da un improvviso timore verso quell’ oggetto pensò: se c’è la spada ci sarà nei pressi anche il suo padrone, o il suo spirito… e cominciò a chiedersi: “Attila! Ma dove è morto Attila, nelle valli o chissà dove?”. Purtroppo Dino non aveva tanta dimestichezza con la storia, e, a dire il vero, neppure con la geografia; così se Olga sciolse immediatamente i suoi dubbi storici, per quelli geografici non vi fu rimedio. La grotta passò in un attimo dal più vivo splendore al buio più tetro. Olga cominciò ad urlare: “Voglio la luce! Dino cosa hai fatto alla luce!” Dino pensò a qualcosa  di soprannaturale, a qualche maledizione per quel luogo profanato o a qualche dispetto degli Skrat e, nel buio, cercò la mano di Olga. Purtroppo, o per fortuna, di soprannaturale non c’ era nulla. Dino, nell’ escogitare il sistema di illuminazione della grotta, era stato un genio, ma aveva trascurato un particolare: che il sole non sarebbe rimasto all’infinito in quella posizione. Così, i raggi provenienti dallo specchio avevano vagato lentamente per la grotta fino a  colpire la spada, illuminandola, per poi disperdersi definitivamente. Ora Dino stava tentando di calmare Olga, raccontandole che pure lui la sera prima si era trovato completamente al buio e che aveva avuto una tremenda paura, e, se non si fosse fatto prendere dal panico, non avrebbe visto cose inesistenti. Le disse che sarebbero usciti dalla grotta, nonostante il buio, lentamente, controllando con le mani protese in avanti gli eventuali ostacoli. Ma ad Olga non si poteva certo darla da bere semplificando le cose, così chiese a Dino: “ E se anziché dirigerci verso l’ uscita ci inoltriamo ancora di più nelle viscere della terra?”   Dino le rispose con il tono di chi aveva in mano la soluzione: “Il trono, aiutami a trovare il trono”.  Olga non capiva il perché di quella richiesta; non era forse giunto il momento di mettere fine a tutte quelle stupide avventure? Se non avesse dato retta a Dino ora non sarebbe in quella situazione. “Eccolo!” urlò di gioia Dino “L’ ho trovato”, e si sedette sopra” - “Basta!” urlò Olga disperata “ Fammi uscire da qui e poi resta seduto su quel trono quanto vuoi!”.  “Olga”, chiese Dino, “da che parte guardavo quando mi hai visto seduto sul trono illuminato?”. “Basta!” urlò nuovamente Olga, “accendi la candela ed usciamo”. Ora Olga era convinta che Dino la stesse prendendo in giro, che volesse solamente spaventarla un poco trattenendola ancora  qualche attimo al buio con quelle domande, ma che avesse in tasca i fiammiferi e la candela. “Rispondimi!”,- disse Dino,- “E’ importante!”.   “Verso di me”, rispose prontamente  Olga,  cercando di accelerare il gioco, se di gioco si trattava. “Bene”,- disse Dino,- “alle mie spalle la grotta prosegue, di fronte a me c’è l’ uscita, per cui dobbiamo prendere questa direzione ”. Ora Olga capì che Dino non scherzava, però, con la sua calma era riuscito  a trovare la via d’ uscita. Proseguirono, tenendosi uniti con una mano e con l’ altra tastando ovunque, dal pavimento alle pareti ed alla volta della grotta. Ad un tratto Olga urtò qualcosa che cadde a terra frantumandosi. “Ahi!”,- disse Olga dopo che aveva continuato a tastare nel buio,- “mi sono punta in un vetro” e subito urlò, questa volta non di dolore: “Dino, è lo specchio, lo specchio che abbiamo lasciato lungo il cammino!”. Questo ritrovamento la riempì di felicità, in quanto era un ulteriore conferma che la saggezza di Dino li stava conducendo sulla giusta via. Anche il tenue chiarore che ormai si vedeva in lontananza le faceva capire che l’ uscita non era più lontana; del resto, non si erano addentrati molto. Cosa sarebbe successo se avessero sbagliato direzione?  Se anziché dirigersi verso l’ uscita si fossero inoltrati ancora e poi smarriti definitivamente nelle tenebre di uno dei tanti cunicoli della grotta? Questa avventura si concluse fortunatamente, grazie alla calma ed al ragionamento di Dino che aveva saputo trarre già dall’ esperienza della notte precedente gli insegnamenti per il giorno seguente. Mai una lezione fu imparata da Dino in così breve tempo, e senza la spiegazione o la costrizione della maestra. E dopo questa ne seguirono tante altre che cominciarono a fare di Dino un uomo; del resto, tra non molto avrebbe dovuto lui badare alla sua vecchia nonna. Dino continuò a frequentare la scuola, ma non era tipo da imparare a memoria poesie o trascorrere ore a fare disegni; Dino imparava dalle situazioni che il vivere quotidiano gli proponeva. Olga non volle più tornare nella grotta, tanta era la paura che aveva provato, e, per il bene che voleva a Dino gli chiese di non tornarvi più. Dino promise che non avrebbe messo più piede nella grotta a patto che Olga non rivelasse a nessuno quello che avevano visto. Dino aveva il timore che, venendolo a sapere, qualcun altro  si impossessasse della spada dorata. Il patto fu rispettato da entrambi e, nel frattempo, una folta vegetazione di rovi ed arbusti ha reso l’ ingresso della grotta introvabile.  Ora la spada dorata di Attila si trova in una delle tante grotte delle valli, di questo siamo certi, grazie a Dino ed Olga che l’ hanno scoperta, e rimarrà ancora custodita qui a lungo, grazie alla natura che  la protegge.

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