Il castagno parlante

"Un popolo, per essere tale, ha bisogno di un territorio sul quale abitare, una lingua per comunicare ed una fede in cui credere. Per fede non si deve intendere solo una religione, ma quell'insieme di regole e valori comuni in cui tutti si riconoscono.  La gente che forma  questo popolo ha bisogno del  territorio per vivere e il territorio ha bisogno della gente per mantenesti integro. Se vengono a mancare la lingua e gli altri valori comuni,  il popolo muore e con lui  il territorio. Nelle nostre valli,  in passato, la simbiosi tra questi elementi è stata fortissima, ma forse si sta rompendo questo delicato equilibrio. In questo mix di storia, leggenda e novella, un castagno racconta la nostra storia e profetizza degli eventi. Quando questi eventi si manifesteranno significherà che la fine del popolo che abitava queste valli sarà vicina." 

 

In queste valli, e parlo delle Valli del Natisone, la vegetazione è sempre stata l’elemento predominante della natura. Solamente nel periodo in cui la Repubblica Veneta estese la propria sovranità su queste terre,  pur esentandole dal pagamento di tributi, impose che tutti gli alberi d'alto fusto fossero a lei riservati. Fu allora che le valli divennero un enorme prato. Questo non perché i valligiani tagliarono gli alberi e li consegnarono a Venezia, ma semplicemente perché rimpiazzarono i boschi coi prati, riducendo così l’entità del dovuto senza contravvenire alle sue disposizioni. L’abbondanza d'alberi ha costituito per i valligiani une fonte, se non di ricchezza, almeno di decente sopravvivenza. Il legno, oltre agli usi più comuni di cui tutti siamo a conoscenza, é stato la materia prima per la produzione in loco di numerosi oggetti ed attrezzi da lavoro, e, fino a pochi decenni fa, addirittura del carbone. Molti di questi prodotti venivano venduti o scambiati sin nelle più lontane capitali dell’est, ma Cividale del Friuli, nell’adiacente pianura friulana, rappresentava "la piazza" per antonomasia. Fra tutte le specie presenti, il castagno è senz’altro l’albero che contraddistingue queste valli, le quali per secoli hanno trovato nutrimento dai suoi frutti e dalla farina che da essi si ricava. Ora che l’utilità di questi prodotti è venuta meno, i boschi sono abbandonati a se stessi e si espandono selvaggiamente divorando i prati ed occultando i paesi. Anche nel tempo in cui avvenne il fatto che narreremo, la vegetazione era la caratteristica dominante di queste zone, ma era contenuta e regolata dall’intervento dell’uomo. Questo non impedì ad un castagno di vivere tanto a lungo da diventare diverso da tutti. Scampato alle intemperie della natura ed alle malattie che talvolta avevano colpito i suoi fratelli, aveva pure visto molte volte in lontananza la grande sega che, ondeggiando sulle spalle del boscaiolo, rifletteva i raggi del sole verso le sue fronde; l’ aveva vista addirittura deposta sopra le sue radici, e ogni volta questa scena gli faceva gelare la linfa, e i suoi poveri rami iniziavano a tremare facendogli perdere prematuramente il fogliame. Certo, tutti quei rami, se tagliati, opportunamente essiccati e slavati dal tannino, avrebbero alimentato per un inverno intero il focolare del suo padrone, ma il castagno lo aveva sempre ricambiato abbondantemente con castagne per la sua famiglia e fogliame per i suoi animali, così il taglio era stato rinviato di anno in anno, di generazione in generazione, fino a che il tronco era diventato così grosso che non esisteva nelle valli lama di sega capace di abbatterlo. Anche i fulmini, che per molti anni lo avevano risparmiato, ora che svettava sopra tutti, pur colpendolo, riuscivano solo a produrgli qualche ferita. Il castagno aveva vissuto a lungo ai bordi di quel grande prato, sempre lì dove era nato, immobile, accanto ai suoi genitori, ai suoi nonni, ai suoi bisavoli, e questi, tramite le radici, gli avevano tramandato le loro memorie. A queste radici attingeva ancora, come un vecchio moribondo che invoca la madre per trarre conforto nei momenti di difficoltà e disperazione. Sì, di disperazione, perché questo albero che aveva potuto vedere ed attingere a secoli di storia, ora voleva gridare agli uomini parole di saggezza, voleva raccontare nuovamente la storia che l’uomo dimentica troppo in fretta, con tutti i suoi insegnamenti. Per fare questo il castagno era riuscito addirittura ad imitare il linguaggio dell’uomo. Nel corso della sua lunga vita aveva imparato a parlare facendo vibrare i sui rami come corde vocali contro il vento; parole che potevano sembrare striduli lamenti quando a formarle era il vento freddo di tramontana, ma che si trasformavano in dolce melodia quando le foglie venivano mosse dalla delicata brezza primaverile. Ogni volta che qualcuno passava nei pressi del castagno, questi irrigidiva i suoi rami al vento con tutta la sua forza in modo da farli risuonare con violenza per farsi sentire anche dal più sordo dei valligiani, ma purtroppo questo non serviva a nulla: le sue parole si disperdevano in quelle valli anguste, dove alla fine giungevano confuse da mille echi che le rendevano definitivamente incomprensibili, destinate a morire, sparse qua e là, ormai inutili e prive di significato, al pari delle sue foglie che le seguivano. L’uomo che passava appresso notava a terra solo qualche misero brandello delle corde vocali che il castagno aveva addirittura spezzato in questo estremo tentativo di comunicazione, e provvedeva ad affastellare quei rametti con cura per alimentare il suo focolare. A volte, in un momento di rabbia, il castagno aveva addirittura cercato di richiamare in modo cruento l’ attenzione di qualcuno, lasciandogli cadere sulla testa i suoi ricci colmi di castagne, ma, terminate le imprecazioni di rito, il malcapitato badava solamente a rincorrerli per estrarne i frutti. Ognuno era troppo immerso nei propri pensieri per sentire quelle parole, troppo preso dalla necessità di soddisfare i propri bisogni quotidiani! Il cacciatore aveva l’orecchio teso a percepire esclusivamente i versi degli animali che provenivano dal bosco. Il contadino, distratto dal rumore secco e cadenzato della sua falce, fischiettava, cercando così di alleviare la monotonia di quel lavoro. La massaia che si recava nel bosco per portargli il cibo, passando sotto il castagno, spargeva rapidamente i mucchi d’erba al sole, gettando sguardi rapidi e preoccupati al paese, giù a fondo valle, dove aveva lasciato i bimbi in custodia ai nonni anziani, cercando di percepire anche il più debole grido che segnalasse qualcosa di anomalo. Il vecchio, che camminava curvo sotto il peso dei suoi anni, aveva ormai perso l’udito, ed a stento avrebbe potuto drizzarsi e sollevare il capo per rivolgere il suo sguardo verso il castagno. Eppure in quelle valli l’aria era fresca e profumata, il sole riscaldava senza bruciare, il cielo era limpido, e dall’alto di quei prati fioriti si riusciva addirittura a scorgere la sottile linea d’argento del mare che brillava in lontananza, oltre la pianura. Tutto dava serenità e tranquillità. Solo Olga, terminati i suoi compiti, era solita fare una passeggiata sui prati per liberare la mente e sgranchire le membra. Un giorno fu attirata dall’enormità di quell’albero, che si notava già in lontananza, e si diresse verso di esso. Giunta ai suoi piedi lo osservò in tutta la sua maestosità; si sedette sotto la sua ombra ad osservare il suo paesino e la sua valle attraversata dal fiume che scorreva verso la pianura, solcandola profondamente, per poi svanire nel nulla. Solo il canto dei grilli e delle cicale faceva da sottofondo alla quiete di quel luogo. L’aria era calma  ed Olga si distese sul prato appena falciato per riposare; il suo sguardo ora era perso nel blu intenso di quel cielo, sullo sfondo del quale s’intravedevano i rami più alti del castagno.

- "Quanto sei grande!" esclamò Olga a voce alta. "Hei! Dico a te! Sei proprio grande!" Il castagno, che la stava osservando incuriosito, si scosse di soprassalto. Non era possibile! Qualcuno gli aveva rivolto la parola. Finalmente! L’albero non riusciva a credere che ciò fosse vero. Tutto eccitato e tremante per la gioia, fu preso da una gran confusione. Tante erano le cose che doveva raccontare che ora la sua mente si confondeva, non sapendo da che parte iniziare. Aveva aspettato a lungo questo momento, ed ora che finalmente era giunto si trovava impreparato ad affrontarlo! Tentò a tutti i costi di parlare, di dire qualsiasi cosa, ma nonostante i suoi sforzi non riuscì a proferire una parola. Cercò di calmarsi, di mantenere fredda la sua linfa, ma non ci fu nulla da fare. Alla fine, disperato più che mai, rinunciò ad ogni tentativo ripiegando tristemente i suoi miseri rami. Anche le sue foglie erano tristi, immobili, quasi paralizzate dall’avvenimento. Dopo qualche attimo il castagno rifletté ed esclamò:

- "Che stupido sono! Ecco perché non parlo, perché non c’è un filo di vento. Le mie foglie sono immobili, come pure i miei rami. Evviva, non ho perso la parola!" A quella gioia però seguì la disperazione più nera; le forze della natura sembravano essersi addormentate sotto quei tepidi raggi solari. Dalla sua altezza il castagno osservò gli alberi del bosco, poi volse lo sguardo su tutta la montagna, infine sui monti accanto: tutto era immobile! Non si vedeva in lontananza neppure un lieve movimento di foglia che facesse sperare in un soffio di vento in arrivo. Certo non si poteva sprecare così un’occasione attesa da secoli! Quelli furono gli attimi più intensi della sua vita. Finora aveva solamente osservato passivamente gli avvenimenti che la storia gli presentava, ora invece doveva trovare al più presto una soluzione che gli permettesse di ritrovare la parola. Era talmente concentrato sul da farsi che ora anche lui, al pari dei valligiani, non udiva le parole che Olga continuava a rivolgergli. Alla fine gli venne un’idea, e, tramite le sue profonde radici, lanciò una supplica a tutti gli alberi del bosco; poi, si mise in attesa…. Il suo richiamo passò rapidamente di radice in radice, come un silenzioso "tam - tam" sotterraneo che ogni pianta provvedeva ad inoltrare alle altre piante. Dopo un poco, in lontananza un albero fece muovere una foglia, poi un altro un’altra foglia ancora, così pure un terzo, un quarto e così via. In meno che non si dica, tutti gli alberi iniziarono a far vibrare le loro foglie, ed una leggera brezza si levò proprio in direzione del castagno. Il castagno avvertì immediatamente quel soffio di vento che gli stava asciugando i sudori di quella giornata concitata, respirò a pieni polmoni ed iniziò a fare sentire la sua voce. Anche Olga, che osservava estasiata il panorama, fu distolta dai suoi pensieri da quella improvvisa ventata di aria fresca, ma soprattutto dalla potente voce del castagno:

- " Perché urli tanto?" gli disse, " Non sono sorda."

- "Mi senti?" chiese il castagno, "Mi senti veramente?"

- "Certo che ti sento, anzi, se continui così mi spaccherai i timpani."

- "Ti chiedo scusa se grido, ma sono anni, anzi decenni o forse più che parlo e nessuno mi risponde, nessuno sembra sentirmi, neppure se alzo la voce."

- "Ma cos'hai di importante da raccontare?  Penso nulla di tanto grave od urgente se hai atteso fino ad oggi, e poi, qui, in mezzo a queste montagne, non succede mai nulla."

- "Spero che anche tu non sia superficiale come tutti gli altri, che non sentono la mia voce solamente perché corrono in continuazione preoccupati per il domani, dimenticando già oggi quello che è accaduto ieri. Vedi, io qui ho visto tante cose. Ho visto la vita nascere e morire; i miei rami hanno fatto ombra ai giovani amanti ed hanno sorretto la corda dell’impiccato. Secoli di storia sono scorsi sotto i miei occhi, e forse tu riuscirai a vederli. Osserva quella striscia di mare argentea." Olga diresse il suo sguardo verso il mare mentre il vento improvvisamente cessò di soffiare.

- " Babbo, babbo, corri, corri!"

- " Che c’è? Ti ha morso qualche serpente?"

- "No, corri, vieni qua! Guarda laggiù, sul mare!

- "Santo cielo!" esclamò il babbo "Corri subito in paese, vai ad avvertire Janez!" Olga si precipitò lungo i prati ed i sentieri umidi del bosco, scivolando più volte sull’erba fresca e sui sassi levigati da secoli di calpestio. Si rialzò sempre prontamente e proseguì la sua corsa verso il paese perché era troppo importante ciò che aveva visto e che doveva riferire. Giunta nei pressi del paese iniziò a chiamare:

- " Janez! Janez! Dov’ è Janez?" continuava a chiamare, mentre pecore e galline fuggivano spaventate di fronte a quelle esili gambe che attraversavano le aie e percorrevano le strette viuzze a tutta velocità. Giunse finalmente nei pressi della casetta di Janez e vedendolo in lontananza iniziò ad urlare ansimante:

- " Sono tornati, Janez, sono tornati!"

- " Chi? Cosa c’è?", chiese Janez incuriosito.

- "Ho visto le loro navi, sul mare, dieci.. cento.. o forse di più. Il babbo mi ha detto di correre ad avvertirvi."

- "Maledetti, di nuovo qui!" esclamò con rabbia Janez. Un piccolo gruppetto di donne e uomini, nel frattempo, si era avvicinato incuriosito. Janez iniziò subito a dare disposizioni:

- "Tu, corri subito nel bosco da dove è arrivata Olga per controllare se ciò che dice è vero. Un altro si rechi immediatamente sulla cima del Matajur, dove c’è la vista migliore. Voi due, correte nei paesi vicini e comunicate la notizia." Tutto questo non fu necessario perché ormai anche a valle si udiva che i campanili delle chiese poste sulle cime dei monti stavano già comunicando l'un l'altro un'imminente sciagura. Quella non era né l'ora del mezzogiorno né dell'Ave Maria e solo un terribile evento poteva aver scatenato un così lugubre concerto. Qualcosa di grave stava accadendo, ma non tutti capivano cosa. In breve giunsero proprio dai paesini posti sulle pendici del Matajur, il monte più alto di quelle valli, alcuni pastori che confermarono la terribile notizia.

- "Ci uccideranno tutti, ci uccideranno tutti!" iniziò ad urlare una donna. Altre s' inginocchiarono verso il Santuario di Castelmonte ed iniziarono a pregare.

- "Raccogliete tutto: farina, granoturco, castagne. Svuotate le cantine e raggruppate gli animali. Bisogna salire sulle cime delle montagne, dove non potranno raggiungerci facilmente", comandò Janez. "Tu, Peter, avverti i capifamiglia affinché radunino al più presto tutto il bestiame". Il paesino ora brulicava come un formicaio. Si cercava di raccogliere tutto ciò che era possibile e di occultare il rimanente. "Presto, presto! Dalla montagna hanno riferito che si stanno già levando enormi colonne di fumo dai paesi verso est, verso l’Isonzo, sembra provengano da là". – Janez radunò tutti gli uomini più forti ed ordinò ad ognuno di munirsi di qualsiasi cosa fosse utile per combattere: forche, coltelli, asce ed anche semplici bastoni. Quello non era un popolo guerriero, ma dedito all’agricoltura ed alla pastorizia, però non aveva permesso ad altri di insediarsi in quelle valli. La lunga carovana di uomini ed animali iniziò il cammino verso le zone più inaccessibili di quelle montagne, lasciando nelle vicinanze del paese solo una piccola avanguardia armata, atta più al controllo che al combattimento. Solo Maria si aggirava nei pressi della sua capanna indecisa a lasciare il paese. In quella capanna c’era il suo anziano babbo che giaceva disteso sopra un tavolaccio ricoperto da foglie di granoturco. Era da lungo paralizzato e pieno di piaghe ed in quel momento rappresentava qualcosa di troppo ingombrante e difficile da trasportare.

- "Sbrigati Maria, sbrigati!" esortarono le vicine. "Vedrai che andrà tutto bene. Non si accorgeranno di lui." – Maria seguì con passo titubante il gruppo, volgendo di tanto in tanto lo sguardo alla sua capanna, poi prese la decisione definitiva: si arrestò, lasciando gli altri avanzare, e quando anche l’ultima persona di quella lunga colonna sparì dalla sua vista, si girò e tornò verso il paese. L’indomani Maria si svegliò già alle prime luci dell’alba ed iniziò come sempre la giornata accendendo il fuoco per preparare il pasto. Maria non aveva mai visto il paese così vuoto e silenzioso. Lungo le piccole viuzze del paese, ormai deserto, vagabondava solo qualche gatto e qualche gallina che si erano dispersi durante il concitato fuggi fuggi del giorno precedente. In lontananza si udivano grida incomprensibili di uomini, scalpitii di cavalli e carri in movimento. Preparata la colazione Maria iniziò ad imboccare il padre.

- "Perché il paese oggi è così silenzioso?" chiese il padre alla figlia.

- "Non è silenzioso, molti si sono recati a lavorare nei campi".

- "Ieri c’era una gran confusione, un grande movimento di uomini ed animali, e poi stanotte e stamani non ho sentito i cani abbaiare, i galli cantare, le mucche muggire. Che cosa sta succedendo?"

- "Nulla, babbo, proprio nulla", rispose Maria con voce tremante.

- "Mi stai mentendo! Senti quelle voci, quelle grida in lontananza, quelli non parlano la nostra lingua!"

- "Sono dei mercanti. Non so da dove provengano, ma lasceranno il paese al più presto"

- "Quelli sono Turchi! Ho già sentito quella lingua! Fuggi, raggiungi gli altri, se ci scoprono ci ammazzeranno entrambi." Maria continuò ad imboccare il babbo ma questi sputò a terra il cibo ed urlò: "Fuggi, lasciami qui, tornerai quando avranno lasciato il paese". Solo allora Maria si decise. Posò accanto al babbo acqua e cibo e si diresse verso l’uscio. Appena posto il capo fuori della capanna, udì uno scalpitio di cavalli e qualcosa che, sibilante, le aveva appena sfiorato i capelli. Si trovò di fronte ad un uomo dalla pelle scura che brandiva una spada: la spada che la aveva appena sfiorata! Rientrò velocemente nella capanna implorando la protezione della Madonna mentre l’uomo stava scendendo da cavallo. Altri guerrieri arrivarono, attirati verso quella capanna, l’unica del villaggio dalla quale usciva del fumo. Maria si nascose, pensando che cercassero solamente di rubare ciò che avrebbero trovato; del resto qualcosa aveva fermato la spada del guerriero. Tre turchi entrarono nella capanna ed uccisero il padre trafiggendolo con una lancia. Maria fu sottoposta ad ogni genere di sevizie e violenze. Alla fine, dopo che tutto il villaggio fu razziato e dato alle fiamme, fu caricata su un carro e fatta schiava. Dalle cime dei monti i valligiani osservavano impotenti la distruzione del loro e di altri villaggi, l’uccisione degli uomini e degli anziani, la violenza e la deportazione di donne e bambini: l’invasore era troppo numeroso per affrontarlo in battaglia! Lasciato il paese, i Turchi proseguirono la loro opera devastatrice dirigendosi verso altri luoghi ed abbandonando definitivamente queste valli. Si disse che Venezia li aveva sconfitti e ricacciati oltre quelle terre, verso oriente, da dove erano arrivati. Si disse che da allora queste valli non avrebbero più conosciuto guerra e violenza.

- " Questo racconto mi ha scosso ", disse Olga; " Povera Maria…ma sono accadute realmente queste cose? Veramente non si ripeterono più? Io penso ancora a Maria."

- "Purtroppo no", disse sommessamente il castagno, "Solo dieci anni fa, proprio su questo prato, per un'altra donna delle valli le violenze si ripeterono."

- "Dieci anni fa! Poco prima che nascessi io!"

- "Sì, proprio allora! Ma… scusami, ti credevo molto più giovane."

- "Ma dimmi cosa è accaduto, ed a chi?" – Il castagno abbassò i suoi rami, e nonostante il vento avesse ripreso a soffiare non proferì più una parola.

- "Parla", urlava la bimba, "parla, rispondi alle mie domande!" – Tutto fu inutile! Solamente dal fogliame del castagno si percepiva un sommesso fruscio che sembrava più un lamento che una parola. Alla fine Olga pensò di avere sognato, di avere spinto la sua immaginazione troppo in avanti, incantata dalla visione di quel mare. Certo non era possibile che un castagno parlasse, che potesse raccontarle tutte quelle cose; forse le aveva lette lei sui libri di scuola. Tornò velocemente a casa e si mise subito a sfogliare i suoi libri: voleva sapere se ciò che aveva sentito era contenuto in essi o veramente l’aveva appreso dal castagno. Tra le pagine di storia trovò scritto che i Turchi invasero l’Italia nel periodo che andava dall’ anno 1472 al 1499, e che Venezia, la forte Repubblica Marinara, li aveva respinti. Quei libri di storia venivano scritti a Roma! Del loro passaggio per queste valli non c’era menzione, e neppure la maestra ne aveva mai parlato a scuola. Solo qualche appartata chiesetta votiva che incontriamo percorrendo i nostri sentieri  ci ricorda ancora oggi quegli avvenimenti. Eppure, anche se da allora erano passati molti anni, la bimba rimase scossa da quel racconto, da tutta quella violenza, proprio nel suo paesino. Decise che l’indomani si sarebbe recata nuovamente dal castagno: voleva saperne di più! 

Il giorno seguente, appena terminata la scuola, si diresse immediatamente verso il bosco, tanta era la curiosità che l’ aveva colta. Anche il castagno quel giorno sembrava ben disposto a parlare. Olga udì la sua voce già in lontananza ed iniziò a chiamarlo:

- "Castagno, grande castagno! Sono ritornata da te!"

- "Vieni, ti aspettavo. Sapevo che saresti ritornata, perché tu non sei come tutti gli altri; tu sai ascoltare e comprendere."

- "Ma sono vere le cose che mi hai raccontato? Le hai viste veramente?"

- "No! Ciò che ti ho raccontato è accaduto molti anni fa; queste cose le ho attinte dalle radici dei miei genitori, ai quali sono state tramandate dai loro genitori. Per quanto la vita di un castagno sia lunga, la storia degli esseri umani è molto più lunga", rispose il castagno.

                          Trisavolo del castagno

Quanto sei vecchio!!

- "Io voglio sapere ciò che tu hai visto, ciò che tu conosci! Raccontami cosa è accaduto su questo prato dieci anni fa, raccontami!" 

 Il castagno abbassò i suoi rami ed il silenzio tornò su quel prato. Olga taceva, cercando di interpretare i deboli fruscii che uscivano dal fogliame dell’albero, poi sedette pensierosa ad attendere sotto quei rami, delusa per quell' improvvisa riluttanza al dialogo da parte del castagno. Il suo sguardo era perso tra quelle valli anguste. Osservava il traffico lungo la strada che portava verso la pianura; riusciva ad udire in lontananza il clacson della corriera che proveniva da Cividale, il rumore potente del suo motore che le perveniva ancora mentre l’automezzo era già fermo al capolinea. Anche nel suo paesino la scure dello spaccalegna sembrava tagliare ancora, continuando a far sentire i suoi colpi secchi, mentre questi l’ aveva già deposta a terra. Ora era immersa in due mondi: con gli occhi viveva nel presente, ma l’udito la teneva ancora debolmente nel passato. I suoni ed i rumori si avvicendavano e giungevano sempre più lenti e staccati, finché un debole soffio di vento fermò quello scorrere all’indietro del tempo e riuscì a mettere a fuoco il suo sguardo, ora disperso tra le rocce della montagna che aveva di fronte. Ai piedi di quella che appariva un’enorme lastra di pietra verticale, una moltitudine d' uomini bivaccava da molti mesi. Sembrava gente tranquilla. Sui carri c’erano donne, vecchi e bambini. A terra, accanto ai fuochi, qualcuno abbrustoliva della carne, altri ballavano suonando strumenti rudimentali, altri ancora giacevano a terra, ubriacati dal vino e dall’acquavite che avevano razziato nelle capanne dei villaggi a fondovalle. 

Quello, apparentemente calmo, era un popolo di predatori; faceva razzia di tutto ciò che trovava sul suo percorso, fuorché delle case: quelle le bruciava, dopo aver ucciso chi le abitava, poiché non ne aveva bisogno, in quanto, oltre che predatore, era un popolo nomade! Olga, incuriosita, volle vedere più da vicino quella strana gente. Approfittando di un momento di distrazione della madre si diresse verso la luce. Mentre proseguiva sentiva l’aria perdere la sua sgradevolezza. Dovette coprire i suoi occhi con le mani perché la luce che aumentava progressivamente d’intensità la stava accecando. Sentiva i polmoni riempirsi d'aria fresca che profumava di bosco. Alle sue spalle aveva lasciato un buio maleodorante di escrementi, come un topo che esce da una fogna. Ecco che cos’era diventata… un topo, come la sua famiglia e la sua gente che si era rifugiata nelle viscere della terra per sfuggire agli artigli di quella belva! Di fuori il gatto aspettava pazientemente, dopo avere divorato tutto, per cogliere il boccone finale. Quel gatto, o meglio quella belva, si chiamava Attila.

- "Fermati!" le disse una voce, mentre una mano la trattenne per le trecce, "Vuoi forse farti trafiggere da una freccia avvelenata?"

- "No!" disse Olga, "Voglio solo vedere quella gente che ci costringe a stare rinchiusi da mesi".

- "Non per molto ancora, piccola cara . Presto potrai tornare a giocare come quei bimbi che senti di fuori. Alcuni dei nostri uomini si sono spinti molto all’interno della grotta, fino ad un punto dal quale, tramite una stretta fessura, si riesce a vedere il fondovalle. Sembra che alcuni carri stiano già lasciando i nostri paesi: anche per loro i viveri, dei quali siamo stati derubati, stanno finendo. Ora partiranno per cercare nuove prede, poiché la nostra regina li ha ingannati con uno stratagemma: ha fatto loro credere che fossimo pieni di scorte, gettando fuori della grotta, proprio ai loro piedi, l’ultimo sacco di grano che ci era rimasto. Gli ha fatto credere che avremmo potuto resistere asserragliati qui dentro ancora per mesi, che qualcuno ci rifornisse di cibo tramite un'altra entrata segreta, ed ora se ne stanno andando. Su! Torna da tua madre!"

 Olga ascoltava le grida che provenivano dal piazzale antistante la grotta. Dei bimbi stavano giocando proprio sulla lunga ed erta scalinata che conduceva al suo ingresso, a pochi metri dalla robusta porta metallica che ne sbarrava l’accesso. Percepiva benissimo che quelle non erano voci di adulti, così, incuriosita, si affacciò alla porta. Voleva vedere quei bimbi, i loro volti, i loro comportamenti, voleva sapere com' erano i figli di quei barbari sanguinari. Fu grande la sorpresa quando si accorse che quelli che avevano incrociato il suo sguardo, su dei volti sporchi, tra lunghi capelli incolti, erano occhi celesti come i suoi. Per un attimo si osservarono in silenzio, poi uno dei bimbi fece capire agli altri che erano spiati. I barbari parlottarono tra loro. Uno di essi prese le mani, le portò alla bocca e ne slargò le estremità facendo vedere i suoi denti giallastri.  I suoi compagni risero divertiti. Un altro sollevò con le dita le palpebre degli occhi e le rivoltò. Le risa continuarono! Anche Olga si mise a ridere. La cosa proseguì per un po’ e pure lei volle fare vedere la sua bravura in quel campo. No, quelli non erano barbari, erano bimbi come lei! Prese la grande chiave appesa ad una parete della grotta, la infilò nella toppa della porta ed in un attimo si ritrovò in mezzo a quei bimbi. Il valligiano che stava di guardia, udito il cigolio, corse immediatamente verso l’uscita della grotta, e, trovata la porta aperta, la chiuse con violenza e con tutti i giri di chiave possibili, poi appese la chiave alla sua cintura. Non riusciva a capire come mai quella porta fosse rimasta aperta. Olga si trovava all’aperto, tra quei bimbi che la circondavano divertiti. La cosa non durò a lungo perché una mano la afferrò con fermezza e la trascinò fuori del gruppo:

- "Mamma! Che cosa fai tu qui? Quando sei uscita?"

- "Taci!" le disse con tono severo la madre. "Ti ho cercato quando sei sparita e seguita quando ti ho vista uscire. Non potevo gridare perché avrei attirato nella grotta tutti i barbari. Hai commesso una grave imprudenza a lasciare la grotta. Ora la porta è rinchiusa anche per noi. Fuggiamo verso il bosco, là non ci troveranno!". Lasciarono alla chetichella quel luogo, ma uno dei bimbi andò ad avvertire i suoi di quello che stava succedendo. Immediatamente un gruppo di barbari iniziò la ricerca dei fuggitivi. La madre, che conosceva tutti i sentieri della zona, riuscì in breve ad allontanarsi dal campo nemico, ma sfortuna volle che si imbattessero in un gruppo di tre barbari che pattugliavano le strade dei boschi.

- "Fuggi, fuggi!" urlò la madre, spingendo la figlia lungo una ripida scarpata, "Quelli inseguiranno me! Corri nel bosco!" – La bimba si precipitò come un cerbiatto verso il bosco vicino ed in men che non si dica fece parte di esso. Sentiva in lontananza le urla della madre fatta prigioniera, ed ora correva cercando qualcuno che potesse aiutarla.

- "Dove corri? Fermati!" le disse una voce.

- "La mamma, hanno preso la mamma!…Oh! Sei tu! Sapessi che paura ho avuto. Ho sognato o sono accadute davvero qui queste cose? E la mia mamma, come sta la mia mamma? Le hanno fatto del male?"

- "No, quella volta credo di no!" disse il castagno e proseguì: "Queste cose sono accadute qui, veramente, molti, molti anni fa. La grotta nella quale la gente si rifugiò, era quella di Antro. Se le mie radici non mi ingannano siamo nell’anno 452 e chi guidava quei barbari si chiamava Attila. Transitava per queste valli in quanto era venuto a completare l’opera di distruzione di Aquileia, iniziata cinquanta anni prima da Alarico. Contrariamente al suo predecessore, Attila era clemente con chi si arrendeva e chiedeva pietà, terribile contro chi gli prestava opposizione."

- "Ma questi Barbari portarono solo distruzione! Ho letto sui libri di storia che invece noi Romani portammo la civiltà ovunque."

- "Piccola cara, i libri che tu hai letto sono stati scritti a Roma! Devi sapere che alcuni re ed imperatori romani si comportarono ben peggio di Attila, sterminando intere popolazioni per portare la loro civiltà. Questo è un piccolo vizio che Roma non ha ancora perso! Sai, anche qui, in queste valli, la gente ha una lingua, una cultura, delle tradizioni, naturalmente diverse da quelle di Roma…come vedi la storia si ripete!"

- "Ma prima hai detto che quella volta non fecero del male alla mia mamma. Quando le fecero del male allora?" 

- Quel castagno si comportava in modo strano: a volte parlava troppo, a volte perdeva la parola o non ricordava bene i fatti. I barbari interrogarono quella povera donna perché volevano sapere come si poteva accedere alla grotta e quanto cibo ed oro vi fossero in essa custoditi. La donna fu torturata fino alla fine, ma non proferì una parola, e questo al castagno non sovvenne. Quel coraggio salvò tanta gente, in quanto Attila tolse l’assedio e se ne andò. Si disse allora che nessuno avrebbe più portato morte e distruzione in questi luoghi, anche perché nulla poteva essere peggiore di quello che era stato. Il castagno, in quel momento, oltre la memoria, perse anche la parola, ed ora le insistenti domande della bimba rimanevano nuovamente senza risposta. Alla fine, sconsolata, decise di fare rientro a casa, dalla propria mamma: del resto per quella giornata le aveva procurato fin troppi guai! La strada del ritorno da scuola era normalmente tranquilla e semideserta, perciò sicura, per cui il ritardo di quella giornata era passato a casa quasi inosservato. Solo la minestra era già da un pezzo sul tavolo ed Olga, con lo sguardo fisso nel piatto, la mescolava facendolo risuonare.

- "La minestra è già fredda", disse la madre,  "non serve mescolare tanto! Sei forse stata messa in castigo a scuola che sei così seria?" Olga approfittò subito di quelle parole per proseguire con una conversazione che altrimenti non avrebbe avuto il coraggio di iniziare. In quegli anni il genitore, indifferentemente se padre o madre, andava non solo rispettato, ma quasi venerato; una delle conseguenze di ciò era che non ci si poteva rivolgere a lui con il tu, ma con un più staccato e rispettoso "Voi". Questo condizionava tutti i rapporti tra genitore e figlio; non esistevano le confidenze, ed il dialogo era limitato all’essenziale. Fortunatamente Olga poteva dare del "tu" ai suoi genitori.

- "Stanotte ho sognato di guerre, soldati  ...  violenze  ...  ma tu, mamma, hai mai subito violenze?"

- "Guerra e politica non sono cose da donne e neppure da bambini, io mi sono sempre occupata e mi occupo solo di cose di casa", rispose la madre dirigendosi verso lo spazzacucina. Olga capì che per quella giornata il dialogo con la madre era terminato. Riprese nuovamente in mano tutti i suoi libri di storia ed andò a cercare anche quelli della mamma, riposti in un polveroso baule in solaio; volle verificare se quanto era sopra scritto concordava con ciò che il castagno le aveva narrato. Quel pomeriggio  lesse ancora molte altre pagine di quei libri perché il castagno aveva risvegliato in lei tanta curiosità, ma soprattutto voleva presentarsi preparata al prossimo appuntamento. Quel castagno, con le sue stranezze, le sue bizzarrie, poteva sembrare talvolta un poco impertinente, soprattutto quando svelava le cose parzialmente o quando si richiudeva nei suoi silenzi. Questo comportamento la irritava molto: del resto, non era stato lui a pregare che qualcuno lo ascoltasse? Al prossimo incontro decise che le cose sarebbero andate in modo diverso; avrebbe raccontato lei la storia al castagno, e per giunta avrebbe portato con sé tutti i suoi libri. Il giorno seguente la bimba arrancava lungo il ripido sentiero che conduceva al castagno. La piccola cartella di cartone, per l’occasione stracolma di libri, pesava molto, e le bretelle di pezza segnavano di rosso le sue esili spalle. Quando finalmente si sedette sotto quell’immensa ombra, estrasse un quaderno sul quale aveva annottato tanti appunti ed iniziò a proferire nomi di popoli e date con una rapidità e sicurezza tali da fare restare l’albero senza foglie:

- "Nell’anno 50 a.c. arrivarono i Romani, nei primi del 600 gli Avari, alla fine del 600 gli Slavi; nel 774 i Francesi sconfissero i Longobardi, nel 1805 Napoleone…. Ma mi stai ascoltando?"

- "Certo che ti ascolto", rispose il castagno.

- "Oh! Scusa, ma non ti sentivo proferire parola, così pensavo ti si fosse bloccata la lingua, come ti capita talvolta."

- "Ne sei certa? Non me n’ero mai accorto", disse il castagno con aria sorpresa.

- "Fingi, fingi pure, tanto qui c’è scritto tutto. Anzi, se vuoi, adesso puoi anche tacere, ho ancora tanti libri…!" ribatté Olga in modo strafottente svuotando la cartella sul prato.

- "Olga..! Olga..!" la richiamò con tono severo il castagno, "Quella che mi stai raccontando è la storia che hai studiato a scuola, quella che non ha mai destato in te la curiosità, che non ti ha mai fatto pensare: un insieme di nomi e di date. Perché solo ora sei andata a leggere i libri di tua mamma?"

- "Volevo vedere se ciò che mi raccontavi corrispondeva alla verità, se ciò che è passato davanti ai miei occhi l’ avevo già visto su qualche illustrazione. Quegli uomini con la pelle scura mi hanno terrorizzato veramente; quegli altri con la barba ed i capelli incolti pure; quelli laggiù con le corna ed il teschio…no! Quelli non li voglio vedere, sono spaventosi! Fuggiamo, nascondiamoci!"

- "Non farti vedere. Sembra non stiano cercando noi", le disse sottovoce la sua amichetta.

- "Ma quanti sono? Guarda quelle teste, quelle corna! Sono dei demoni! Hanno veramente tagliato tutte quelle teste? Taglieranno anche le nostre! Fuggiamo! Ma dove sei andata? Elisabetta! Elisabetta!"

- "Fermati, non fuggire!" gridò una voce maschile. Due braccia robuste l’ afferrarono ed un'orrenda figura d'uomo si presentò ai suoi occhi. Olga iniziò ad urlare ed a dimenarsi terrorizzata, ma quelle forti braccia la stringevano fino a quasi toglierle il respiro. L’uomo la depose sul dorso del proprio cavallo e ne spronò la corsa. Ad un lato del collo dell’animale era appeso uno scudo rotondo con al centro una protuberanza a forma d'elmo; dall’altro lato pendeva un teschio umano che sballottava durante la corsa. Di tanto in tanto lo sguardo di Olga si posava su quel cranio e quelle cavità che una volta avevano ospitato due occhi s' incrociavano con i suoi. Persino la bocca sembrava muoversi e proferirle lugubri parole. Questa visione la terrorizzava maggiormente.

- "Calmati, non voglio farti del male", le disse l’uomo, "ci serve solo una guida". Olga continuava a dimenarsi e a urlare, finché raggiunsero un gruppetto di uomini. Notò immediatamente le corna presenti sulle loro teste ed ebbe la sensazione di essere arrivata all’inferno. Però quegli uomini non impugnavano le forche bensì delle lunghe lance; nell’altra mano invece sorreggevano qualcosa che assomigliava ad un grande copricapo metallico. Fu condotta di fronte ad un uomo corpulento che indossava un alto elmo rotondo con in cima un grande pennacchio di crine di cavallo. Una larga cintura, dalla quale pendeva un'enorme spada, cingeva i suoi fianchi. Quell’uomo sembrava il capo di quegli indemoniati. Olga portava appesi al collo due ossicini legati a forma di croce. Li prese tra le dita e sollevandoli iniziò a pregare. L’uomo tolse l’elmo dal proprio capo, prese delicatamente quell'esile manina, e baciò il crocifisso. Olga rimase stupita e si rincuorò, pensando che ora quei demoni l’ avrebbero liberata. Trovò finalmente il coraggio di sollevare gli occhi e guardò in faccia quegli uomini. Notò che quelle corna non spuntavano dalle loro teste, ma erano solamente un ornamento dei loro elmi.

- "Come ti chiami?" le chiese quel guerriero. La bimba rispose con un filo di voce proferendo il proprio nome. " Conosci i sentieri di queste valli?" Olga annuì. "Ci guiderai attraverso queste montagne e poi ti sarà concesso di tornare a casa. Bada, se ci condurrai in un agguato il tuo capo penderà accanto a quelli che vedi sul mio cavallo, parola di Alboino!"- Quelle parole la fecero rabbrividire, ma capì che doveva ubbidire. Ora la attendeva un compito rischioso, ma se quella era la pena, voleva espiarla nel più breve tempo possibile. Lungo il percorso si accorse che alcuni uomini del suo villaggio stavano seguendo appartati il gruppo di guerrieri.

- "Non farete del male alla nostra gente, vero?" .

- "Se non ci attaccherete e soddisferete le nostre richieste non vi sarà fatto alcun male. Abbiamo bisogno di cibo e merci", rispose Alboino.

- "Perché chiedi generosità ad un popolo povero come il nostro? Siamo pastori che viviamo di latte e castagne, non possediamo né oro né merci preziose".

- "Guarda laggiù, a valle, quella moltitudine di persone e di animali. Quella è la mia gente e deve essere sfamata!" Solo allora Olga notò, tra uno squarcio nelle nubi che ricoprivano le valli, una lunga carovana di uomini, carri, animali; non aveva mai visto tanta gente in vita sua: un popolo intero in movimento! Si rivolse ad Alboino e gli disse:

- "Non depredare la mia gente. Risparmiaci lutti e sofferenze. Se mi seguirai, ti condurrò dove potrai vedere terre sterminate che giungono fino al mare, e numerosi paesi; là troverai cibo e ricchezze per la tua gente. Ti mostrerò una città con grandi case in pietra ed enormi palazzi. Lungo le sue vie potrai trovare ogni genere di merce. Tutto questo l’ho visto con i miei occhi!"

- "Tu sei stata in quella città?" le chiese Alboino.

- "Certo, te l’ho appena detto".

- "Quanti soldati sono a guardia di quella città?"

- "Non ne ho visti molti" - Il condottiero ascoltava interessato le parole della bimba e questa rispondeva alle sue domande con voce sempre più sicura. Sentiva che quell'uomo non era cattivo come l’ aveva immaginato. Alla fine lo convinse a seguirla e questi le disse:

- "Ti seguirò, però bada che se questo è un tranello ti decapiterò con questa spada!" Olga non riusciva a comprendere quell’uomo che baciava la croce e proferiva parole di morte, ma certa di ciò cha affermava disse:

- "Seguimi! Tu stesso giudicherai se mento!" 

Iniziò a camminare arrampicandosi su quei pendii di quella montagna come un cerbiatto. Il gruppetto di uomini  la seguiva a breve distanza, con precauzione, timoroso di essere condotto in qualche imboscata. Le nuvole che avvolgevano la montagna non permettevano che si vedesse molto in lontananza. Quando furono saliti sufficientemente in alto, i boschi cominciarono a diradarsi lasciando il posto ai prati che stavano iniziando a verdeggiare. La neve che aveva ricoperto per tutto l’inverno quel monte era da poco scomparsa ed il terreno era umido e soffice. L’aria si faceva più fresca e di tanto in tanto qualche raggio di sole squarciava la nebbia che una lieve brezza sospingeva verso ponente. Alboino impugnò la spada e prese la mano della bimba:

- "Sei certa di conoscere il percorso?" le chiese.

- "Certo, tra poco saremo sulla vetta."

- "Bada a te se menti!" le disse Alboino stringendole la mano fino a provocarle del dolore, avvertimento di ciò a cui sarebbe andata incontro se avesse mentito. Nei pressi della cima soffiava un forte vento da nord-est che teneva pulita la sommità di quel monte e dei monti circostanti. Ai loro piedi un’ enorme marea di nubi splendeva sotto i raggi del sole e ricopriva le valli; in lontananza, dove i monti di quelle valli terminavano, appariva la città promessa ad Alboino, poi una sterminata pianura, con i contorni disegnati dal mare. Alboino vide il mare per la prima volta nella sua vita. Commosso, abbracciò la bimba e le disse:

- "Porrò in quella città la mia corte e tu sarai per sempre mia ospite."

- "Ti ringrazio, ma io non voglio lasciare queste valli. Ora voglio tornare a casa!"

- "No!" disse Alboino, "Mi condurrai fino alle porte di quella città, poi sarai libera. Bada a te se provi a fuggire!" Quell’ uomo alternava nuovamente parole di bontà ad altre di terrore, ed a nulla valsero i pianti di Olga che chiedeva di essere liberata. I due uomini che la fiancheggiavano non la perdevano di vista neppure per un attimo e lei capiva che era impotente di fronte a quella gente. Solamente quando giunse nei pressi del proprio paese, e vide qualcosa di terrificante, iniziò a correre noncurante delle frecce che avrebbe avuto dietro a sé:

- "Mamma! Mamma! Che cosa ti hanno fatto?"

- Un corpo di donna giaceva a terra con le gambe ed il ventre trafitto da frecce. I barbari avevano fermato in quella maniera la disperata corsa della madre che aveva cercato di raggiungere i rapitori di sua figlia. Olga piangeva china su quel corpo che giaceva in una pozza di sangue.

- "Non piangere più",  le disse una voce, "sono passati da allora molti anni, e tua mamma ha trovato il riposo e la felicità eterna." La bimba ancora sconvolta da quella visione iniziò ad urlare:

- "Ma perché c’è bisogno solo di sangue in questo mondo, perché solo di violenza vive l’uomo?"

- "E’ per questo che volevo parlare, raccontare nuovamente la storia a tutti gli uomini, purtroppo solo tu mi hai ascoltato."

- "Sai", sono molto preoccupata per la mia mamma. Ora temo che possa capitarle qualcosa. In ogni epoca ha subito violenze."

- "Stai tranquilla, stavolta non le succederà nulla. Se qualcosa doveva succederle è già accaduto", disse il castagno nel tentativo di tranquillizzarla.  

- "Che cosa è accaduto?" urlò Olga. Purtroppo tanta era la voglia di parlare del castagno che pure stavolta gli sfuggì qualche parola di troppo. A nulla servivano poi i suoi silenzi, anzi, diventavano irritanti. La visione della madre morente aveva scosso Olga, e l'atteggiamento del castagno le aggiunse ulteriore rabbia. Raccolse da terra delle pietre ed iniziò a scagliarle con tutta la sua forza contro l’albero continuando ad urlare:

- "Parla! Parla! Rispondi alle mie domande!"

- "Ahi! Ahi!" gemeva il castagno sotto i colpi di quella sassaiola.

- "Non fingere! Vorrei farti male, ma la tua scorza è troppo robusta."

- "No, fermati, ti prego, fermati! Sono tutto dolente".

- "Come mai?"

- "Sono vecchie ferite"

- "A chi vuoi darla da bere!"

- "No! Basta, ti prego!" implorava il castagno mentre brandelli della sua robusta corteccia iniziavano a staccarsi e a volare sul prato. "Basta! Ohi- ohi- ohi-ohi"

- "Non muoverti, ti prego, rimani fermo", supplicò Olga.

- "E chi si muove!" disse con tono quasi rassegnato il castagno, "Vorrei farlo in questo momento, ma le mie radici me lo impediscono."

- "Tà-tà-tà-tà-tà", faceva la lugubre musica che proveniva da dietro le rocce.

- "Ohi - ohi - ohi - ohi", rispondeva il castagno. Olga se ne stava distesa a terra, immobile, al riparo di quell'enorme tronco, trattenendo il fiato per divenire ancora più piccola.  Attorno a lei volavano schegge di pietre e pezzi di rami. Quando quella musica ebbe termine, si alzò anchilosata  ed iniziò ad accarezzare dolcemente il castagno.

- "Grazie! Mi hai salvato la vita! Ma tu, sei tutto pieno di proiettili! La tua corteccia è aperta ovunque." 

- "Ohi-ohi-ohi-ohi, l’ho scampata bella! Mi sento come se avessi il mal di pancia. Questo non l’ avevo mai provato prima d’ora, al massimo avevo ricevuto qualche singola beccata."

- "Ma dove siamo? E’ veramente così pericoloso vivere in queste valli? Non l’avrei mai creduto", disse  la bimba osservandosi attorno.

- "Gettati a terra e non muoverti!" gridò il castagno, piegando un ramo verso il basso. Olga si trovò improvvisamente avvolta dalle foglie dell’albero, mentre dalle pendici della montagna iniziavano a scendere numerosi soldati.

- "Perché mi nascondi?" chiese al castagno, scostando delicatamente una grande foglia che le copriva gli occhi. "Quegli uomini sono disarmati, non possono nuocere a nessuno."

- "Quelli sono prigionieri, si sono appena arresi, ma i soldati che li scortano sono armati ed il loro comandante è molto astuto. Il suo nome è Rommel."

- "Cosa facciamo? Ci arrendiamo pure noi?"

- "Non è necessario. In guerra, le donne, i bimbi e gli anziani vengono risparmiati".

- "Bugiardo! Fino ad ora mi hai fatto vedere l’opposto".

- "Sottovoce. Potrebbero scambiarti per un nemico ed ucciderti."

- "Sai, con te mi sento veramente sicura, ed oggi sei particolarmente paterno. Qui, tra le tue foglie, sento tanto amore e protezione, come se ad abbracciarmi fosse il mio babbo." Quel castagno sapeva tante cose e quello fu un attimo di commozione anche per lui. Ora le sue foglie accarezzavano dolcemente i capelli di quella bimba che avrebbe dovuto continuare a giocare, ma la cui fantasia e sensibilità le facevano vedere cose atroci. Era giunta in un tempo in cui il mondo era impazzito. Dopo le lunghe colonne di prigionieri, giungevano i feriti, ed infine i morti, molti dei quali raccolti e seppelliti pietosamente dalle mani dei valligiani. Quelle colonne procedevano ora in un senso, ora in quello opposto, come la lama di una sega che nessuna delle parti riusciva ad impugnare saldamente, ma che continuava a chiedere carne per i suoi denti. Quella guerra era talmente pazza che talvolta neppure chi comandava la comprendeva. Bisognava vincere, e nulla importava il costo finale in vite umane!

- "Ma quei bimbi in divisa che giacciono a terra? Non avevi detto che in guerra i bimbi vengono risparmiati?"

- "Sembrano bimbi, ma sono ragazzi, e con la divisa sono diventati uomini, soldati. Li chiameranno i ragazzi del ’99 ".

- "Ma perché si fece questa guerra?"

- "Per completare l’unità d’Italia, per dare a coloro che parlavano la stessa lingua, un’unica bandiera; per porre tutta questa gente entro i confini che Dio aveva creato per essa"

- "Hai ragione! Ora che ricordo, me l’ha detto anche la maestra. Quando Dio creò l’Italia ne determinò i confini: dai monti sino al mare. Ma si raggiunse lo scopo?"

- "Certo, la guerra fu vinta e si disegnarono nuovi confini. "

- "Grazie a Dio! Così finalmente non ci sarebbe stato più bisogno di fare altre guerre! E quel generale che catturò tutti quei nostri soldati fu ucciso?"

- "No!"

- "Ma allora poté farci ancora guerra?"

- "Certo, fece ancora guerra, ma stavolta al nostro fianco… o noi al suo…"

- "Non capisco"

- "Beh! Alla fine è tornato nemico ed stato sconfitto definitivamente", concluse il castagno.

- "Scusami, ma oggi non comprendo nulla. Mia mamma non parla l’italiano, io stessa ho dovuto imparalo a scuola, ma la guerra è terminata qui?"

- "La guerra è terminata nell’anno 1918 ed hanno apposto i confini anche ad oriente. Naturalmente per diventare come Roma vi vuole dovrete imparare molte cose …e cancellarne molte altre, altrimenti per voi inizierà un nuovo tipo di guerra. Innanzi tutto dimenticate la vostra lingua!"

- "E’ vero, lo dice sempre la mia maestra e lo dice anche alla mia mamma: non dobbiamo più parlare lo sloveno. Ma come farò con la nonna? A scuola non la vogliono più!"  

-  “ Non preoccuparti, tua nonna ha la scorza dura come la mia, ha le radici ben piantate su queste terre, proprio come me. Tu, Olga, sei un esile fuscello che stanno cercando di piegare, di sradicare per far morire queste valli, per soppiantare questa gente.” 

-  “Ma ne sei certo? Io non mi accorgo di nulla! Come possono fare questo?"

- "Facendoti dimenticare ciò che sei, o peggio, facendoti vergognare di quello che sei, e ti diranno che questo è per il tuo bene. Ti insegneranno tante cose nuove, sempre per il tuo bene." 

- "Chi? Le maestre? Sai, vado a scuola, mi diverto, ho tante amiche e amici e mi danno anche da mangiare perché cresca robusta. Credimi, nessuno riesce a piegarmi; a scuola facciamo anche la ginnastica per crescere dritti! Ma tu, vedi anche nel  futuro? Dimmi allora, riusciranno in questo intento? Moriranno veramente queste valli?”  

-   “Queste valli sono troppo piccole per sopravvivere ad un storia tanto grande. Le guerre, nel corso dei secoli, le hanno ferite profondamente, ma credimi, le ferite mortali arriveranno in un periodo di pace, o meglio, in assenza di guerra.”

-  “Non comprendo come questo possa accadere.”

- “Il mondo verrà diviso in due e io e te ci troveremo schiacciati in mezzo; purtroppo, come spesso accade, verremo sacrificati per un bene comune, per un interesse superiore. La gente, per sopravvivere, dovrà abbandonare i propri paesi…allora inizierà la nostra morte.

-    Ma non si potrà fare nulla per evitare ciò?”

-   “Purtroppo nulla!”

-    “Non ti credo! Ho visto tanti lutti e sofferenze, ma solo durante le guerre; e poi,  non voglio morire e non voglio che neppure tu muoia!  Quando vedrò che ciò accadrà correrò a salvarti.”

-   “Credo che sarà una lunga agonia e forse neppure tu ti accorgerai di nulla. Forse contribuirai anche tu alla mia fine.”

-   “No! Non è vero e non lo voglio! Fammi sapere come e quando accadrà!”

-  “Se osservi attorno a te vedi tanti castagni, sani, belli, che danno frutti. Voi ci volete bene, ci curate, potate i nostri rami secchi ed innestate quelli giovani affinché possiamo darvi i frutti migliori; alla fine, quando giunge la nostra ora, non ci lasciate qui a marcire, ma ci raccogliete, e noi lasciamo il nostro posto ad altre piante; poi ci deponete sul vostro focolare e disperdete per i prati le nostre ceneri, così diventiamo nutrimento per i nostri figli e rinasciamo in loro. Quando vedrai che i nostri rami daranno solo frutti  selvatici, significherà che la nostra morte sarà  vicina; vorrà dire che ormai nessuno si curerà più di noi, così anche noi perderemo la nostra nobiltà, diventeremo degli alberi comuni, barbari, come le orde di popoli che sono passate di qui. Quando questo accadrà le valli inizieranno a morire.”

-   “Ma dimmi….!”

- " Olga, ora ci sono cose più urgenti a cui pensare, forse tua mamma ha bisogno d’aiuto. Raggiungila! Sembra ci sia stata una violenta battaglia qui vicino, e pure io sono preoccupato. Ho tanti nipotini in quella zona che non hanno la scorza resistente come la mia. Queste maledette pallottole bruciano veramente!"

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

- "Si, è proprio vero, la voce è giunta pure a me. Mi raccomando, non parlarne con nessuno!" disse la mamma. "Sembra che si sia suicidato qui, in paese, e che sia un pezzo grosso. Pare, un generale. Ha lasciato scritto che non ne poteva più di questa guerra ed ora lo stanno portando via segretamente. Se iniziano a farlo questi, forse smetterà questa carneficina. Mi raccomando non uscire da casa devo recarmi a Iainich. C’è stata una battaglia e ci sono tanti feriti da curare…e morti da seppellire." La madre s'incamminò verso la montagna. La sua gerla era piena di lenzuola ritagliate a strisce per ricavarne delle garze. Sul fondo della gerla, un recipiente con un poco di brodo, e qualche bottiglia di acquavite. Quest’ultima serviva come disinfettante, anestetico, ma soprattutto dava coraggio. Non tutti quelli che combattevano erano eroi, come era scritto sui libri di scuola; molti non capivano questa guerra e sopratutto non volevano morire. In quel liquido talvolta trovavano il coraggio per ricevere la pallottola del nemico nel petto, da eroi, evitando quella amica, alla schiena, riservata ai disertori da chi stava nelle retrovie. Olga osservava attraverso la finestra l’arrampicata della mamma lungo la mulattiera che conduceva al paese più vicino, poi avrebbe dovuto proseguire lungo un sentiero attraverso i boschi. Certo quella non sarebbe stata una passeggiata tranquilla! La figlia decise di seguirla, così avrebbe potuto rendersi utile in caso di bisogno. Giunta nei pressi di una chiesetta circondata da numerosi castagni, vide la gerla della mamma appoggiata ad un muro. Sul prato giacevano ovunque corpi di soldati. Nell’ aria si sentiva già l’odore dei cadaveri in decomposizione.

- "Mamma", chiamò Olga.

-"Che cosa fai qui?" le disse con tono severo la madre, "Ritorna immediatamente a casa!"

-"Volevo aiutarti"

-"Non vedi che qui c’è solo morte? Presto torneranno gli uomini a darmi una mano. Hanno già sepolto molti soldati. "

– "Questi morti non mi fanno terrore, ma solo dolore e tristezza", disse sommessamente la bimba.

– "Povera piccola. La guerra ci ha segnato tutti, ed anche voi bimbi vi siete abituati a questi orrori. Prendi questa ciotola. Lassù, sotto l’ultimo castagno, c’è un soldato ferito che ho appena medicato. Cerca di fargli bere un poco di brodo." - La bimba si avviò con la ciotola in mano con fare da equilibrista, cercando di non inciampare nei crateri prodotti dalle bombe e nelle armi sparse ovunque sul prato.

– "Mamma! Guarda che cosa ho trovato!" disse Olga mostrandole un oggetto metallico che aveva appena raccolto.

– "No! E’ una bomba! Deponila a terra delicatamente; anzi, aspetta che la prenda io." La madre corse verso la figlia per toglierle di mano quell’oggetto pericoloso, ma non era l’unico in quel luogo. In quella corsa concitata la madre inciampò in qualcosa, cadde a terra ed echeggiò uno sparo. Olga cercava disperatamente di tamponare gli zampilli di sangue che uscivano dal collo della madre. Prese un lenzuolo e lo premette fortemente sulla ferita, ma era impossibile fermare quella emorragia: più il lenzuolo si colorava di sangue più il volto della madre sbiancava come il lenzuolo.

– " Mamma! Mamma!" continuava a chiamare Olga cercando di sollevarle il capo.

– "Temo sia morta… maledette armi! " disse qualcuno alle sue spalle. Era il parroco del paese che si trovava nei paraggi per benedire i morti e confortare i feriti. La figlia, disperata, piangeva con dolore e rimorso la perdita della sua mamma, mentre il sacerdote recitava le preghiere riservate ai moribondi e chiudeva gli occhi della donna.

– "Voglio pregare sulla sua tomba! Voglio portarle dei fiori! Ora so dov'è quel luogo! Non è molto lontano da qui. Voglio andarci immediatamente!", disse Olga al castagno.

– "Non piangere. Purtroppo la sua tomba oggi non esiste più. Tua madre fu sepolta nel cimitero e da allora sono passati molti anni.  In quel luogo furono sepolti solamente i soldati ed esiste ancora una lapide, vicino alla chiesetta, che ricorda l'avvenimento." 

- " Ma perché mi fai vedere solo cose orrende? Hanno fatto sempre guerre gli uomini? C’è stato un periodo felice in queste valli?

– "Non ne sono certo, ma dicono che qui ci fosse stato un piccolo paradiso terrestre. Ciò che ti racconterò fa parte delle leggende del mondo degli alberi. Questa è antichissima, forse la più antica che noi alberi raccontiamo ai nostri figli, perché narra del tempo in cui anche le piante lottavano tra loro. Si dice che allora noi castagni non potevamo nascere e crescere dove volevamo in queste valli, perché altre piante mettevano su queste terre radici più salde e profonde delle nostre impedendo a noi di attecchire. C’era una valle a noi proibita, dove non potevamo entrare, ma solo osservarla dalle cime dei monti. Ma non solo noi…

 La Valle d’Oro

Molti, molti secoli fa, la cima del monte più alto delle valli, il Matajur, era perennemente innevata perché su tutta la terra il clima era più freddo di adesso. Anche il monte era molto più alto di come appare ai nostri occhi e non aveva la sagoma della "Stara Baba", come la chiamano i valligiani, cioè della vecchia donna accovacciata, e la sua cima si stagliava aguzza sullo sfondo delle Prealpi. Ai suoi piedi scorreva il "fiume freddo", dalle acque verdi e limpidissime, ricco di pesce, ma gelato per buona parte dell’anno. Il "fiume freddo" era un grande fiume che proveniva da nord e si dirigeva verso la pianura, arricchendo le acque di altri fiumi, per poi sfociare nel mare. Sulle pendici della "Stara Baba" si trovavano, sparse qua e là, diverse grotte nelle quali gli appartenenti alla tribù dei Moh, che vivevano di caccia e di pastorizia, si rifugiavano durante il loro errare con le greggi. La "Stara Baba" era una madre generosa, perché in quelle valli, completamente ricoperte da boschi, solo ai piedi della sua cima c’erano enormi pascoli che potevano dar nutrimento alle greggi di quella tribù. La natura impediva che sulle parti più alte di quella montagna crescessero gli alberi, così i rari arbusti, assieme all’erba, costituivano un cibo pregiato per capre e pecore. Altri pascoli si trovavano sulle cime delle "montagne fumanti", vicine alla "Stara Baba", ma nessuno osava avvicinarsi a quei luoghi. Nel fondovalle, altre grotte, più grandi, ospitavano perennemente altri appartenenti alla tribù dei Moh che formavano delle piccole comunità. 

 

Queste crescevano di numero quando la "Stara Baba" diventava cattiva, ed avvolgendosi in un candido mantello, scrollava tutti di dosso, costringendo i pastori e le loro greggi al rientro a valle. Ora su quelle cime, anche per orsi, lupi e cinghiali, era impossibile la vita; anch’essi, per sopravvivere, sarebbero stati costretti a seguire il migrare dei pastori, dove avrebbero potuto predarli o nutrirsi del poco che la natura rendeva disponibile. I cinghiali, più a valle, si sarebbero nutriti di castagne e radici; i lupi avrebbero seguito le greggi e le avrebbero attaccate al momento opportuno; gli orsi sarebbero scesi fino sul corso del "fiume freddo", dalle acque ricche di pesce, dove avrebbero potuto trovare nutrimento. Quell’inverno, a fondovalle, il "fiume freddo" scorreva silenzioso sotto una spessa lastra di ghiaccio che proteggeva i suoi abitanti. Gli orsi camminavano nervosamente su di essa affondando nel ghiaccio i loro artigli. I numerosi crepitii che si udivano quando il sole cominciava timidamente a penetrare in quella valle, davano la sensazione di qualche cedimento imminente della volta ghiacciata, ma non appariva neppure un pertugio che consentisse agli animali di dissetarsi. Solo qualche masso, reso instabile dalla pioggia e dal gelo, precipitando dalle ripide pendici dei monti, riusciva a infrangere i ghiacci del "fiume freddo", consentendo agli orsi di sfamarsi, ma quando questo evento accadeva, il gelo di quell’inverno provvedeva immediatamente a cicatrizzare quelle ferite: anche gli orsi, per sopravvivere, avrebbero dovuto dare la caccia all’uomo ed ai suoi animali. I componenti della tribù dei Moh avevano imparato a conoscere le insidie della natura; avevano fabbricato delle armi rudimentali per cacciare, ma anche per difendersi, perché a volte il nemico era più forte. Quegli uomini avevano capito che potevano difendersi anche dalle belve feroci; avevano notato che queste, più che le armi, temevano il fuoco! Quell’inverno, stretta dalla morsa del freddo e dall’assedio delle fiere, la tribù dei Moh tenne perennemente accesi dei fuochi davanti alle grotte. Quella barriera fumosa proteggeva uomini ed animali. Gli orsi, attanagliati dai morsi della fame, si aggiravano impazienti nei pressi delle greggi stando a dovuta distanza dalle fiamme, nell'attesa che accadesse qualcosa. I componenti della tribù sapevano che, prima o poi, qualcosa sarebbe accaduto, ed osservando il cielo sistemavano le loro armi. Finalmente dal cielo giunse il segnale che gli orsi attendevano: il sole si oscurò, ricoperto da grosse nubi nere, ed iniziò a cadere una forte pioggia. I fuochi in breve divennero piccoli formicai fumanti ed ora solo l’uomo sbarrava la strada agli aggressori, ma di questo non avevano timore. Si diressero verso le greggi dove ad attenderli, in quella che si trasformò per entrambi in una della tante lotte per la sopravvivenza, si trovavano tutti gli uomini della tribù. Tutti parteciparono alla lotta: adulti, vecchi, bambini, donne vecchie e giovani donne incinte. Quella non era una lotta che finiva con una tregua o con una resa, ma con l’annientamento di una o dell’altra parte. Gli uomini, muniti di grossi pali appuntiti, affrontavano, riuniti in gruppi, gli orsi; donne e ragazzi, impugnando torce ricoperte di pece ardente, cercavano di far fuggire i lupi che seguivano gli orsi a breve distanza. Altri gruppi di donne e ragazzi brandivano delle lance di legno e finivano gli animali feriti conficcandole negli occhi e nella gola di questi; altri invece li finivano a sassate. Qualche orso riusciva a sferrare le sue zampate mortali agli aggressori; qualcun altro giaceva a terra esangue. La lotta proseguiva spietatamente e gli animali affamati aggredivano gli uomini con una ferocia inaudita. Il candore della neve cominciava a tingersi di rosso ed il capo tribù, vedendo che il suo popolo stava subendo grosse perdite in quella sfida, ordinò di ritirarsi nelle grotte, dove i fuochi erano rimasti accesi e dove avrebbero potuto difendersi meglio. Quella decisione, purtroppo, significava abbandonare le greggi al loro destino. Fortunatamente, accadde qualcosa d'imprevisto. Un gruppo di pecore impaurite si diede alla  fuga abbandonando il gregge; furono proprio queste, che nell’inutile tentativo di salvezza, si immolarono ponendo termine alla lotta. I primi ad inseguirle furono i lupi che attendevano dietro agli orsi l’esito dalla battaglia, poi anche gli orsi abbandonarono la lotta, preferendo un bottino più misero ma sicuro. Alla fine morti e feriti vennero portati all’interno della grotta, accanto al fuoco. Per i feriti non si poté fare nulla all’infuori che attendere la loro morte o la guarigione. Gli animali rimasti furono raggruppati nuovamente e posti al sicuro. Il capotribù salì in cima ad una collinetta ed osservò tutt’attorno cercando le pecore fuggite; osservò le greggi rimaste, che venivano decimate ogni giorno, ed i suoi uomini, che morivano di stenti. Dalla cima della "Stara Baba" scendeva un vento gelido che lo colpiva alle spalle. Alzò lo sguardo rivolgendolo verso la pianura. Pensò che fosse giunto il momento di lasciare quella gelida valle, come ultimo tentativo di salvezza per il suo popolo, dirigendosi verso luoghi meno freddi, come la pianura o la "Valle d’Oro", dove avrebbero potuto svernare. Quella non era una decisione senza rischi, in quanto significava esporre durante il percorso le greggi agli attacchi delle fiere ed abbandonare i più anziani e gli ammalati al loro destino. Se si fossero diretti verso la "Valle d’Oro" probabilmente sarebbero stati ricacciati dai suoi abitanti, come era già accaduto in passato, perché i Moh parlavano una lingua diversa, ma in quel frangente, per salvare il suo popolo, il capo tribù sarebbe stato disposto anche a combattere per conquistare una porzione di territorio e pascoli. Un’altra alternativa sarebbe stata migrare verso la più mite ed ampia pianura, ma anche in quei casi, durante il loro errare, avrebbero subito numerosi attacchi di fiere e predoni, e durante la loro assenza le loro grotte sarebbero state saccheggiate, da altri predoni, di tutti gli oggetti ed attrezzi da lavoro. Il capo tribù dei Moh convocò tutti gli uomini ed insieme presero la decisione: si sarebbero recati nella "Valle d’Oro", molto vicina, così avrebbero portato con sé i vecchi e gli ammalati. La "Valle d’Oro" era quasi adiacente a quella del "fiume freddo"; si doveva raggiungere percorrendo il fondovalle perché le pendici innevate delle montagne impedivano altri percorsi. Si incamminarono trascinando con sé i vecchi, le mandrie ed i pochi oggetti ed attrezzi che possedevano. Dopo alcune ore di cammino la valle diventò più ampia e sulle loro guance iniziò a battere un vento meno freddo. Di tanto in tanto, la neve cedeva il posto a qualche ciuffo d’erba, e le pecore affamate, trovavano, dopo un lungo digiuno, un poco di cibo. Il territorio mutava repentinamente, come il clima, e qualche albero, stranamente verdeggiante, anticipava ai loro occhi increduli, quel paradiso. Piccoli gruppi di animali selvatici vivevano ai margini di quella valle, al riparo dalle trappole e dalle frecce dei suoi cacciatori. Giunti all’imbocco della "Valle d’Oro", notarono le pendici dei monti ricoperte da una rigogliosa vegetazione; in lontananza, all’altro estremo, colonne di fumo bianco e grigio si levavano verso il cielo. Le pendici dei monti erano cosparse da numerosi massi bianchi sparsi qua e là che gli alberi, a volte a stento, trattenevano. Fra i tanti, si notava un masso enorme, situato sulla cima del primo monte all’imbocco della valle. Due grossi castagni ultrasecolari, cresciuti al limite di dove a loro era concesso, lo trattenevano, decidendo per quel precario equilibrio. Dal fondo della valle si sollevavano in continuazione piccole nuvolette di vapore acqueo che un vento gelido provvedeva a dissolvere non appena raggiungevano le cime dei monti circostanti. L’intera tribù osservava in lontananza, stupefatta, quello che ai suoi occhi appariva un mondo nuovo. Si accamparono nei pressi del fiume che usciva dalla "Valle d’Oro" formando una gigantesca cascata; lì avrebbero passato la loro prima notte ed atteso il momento più opportuno per penetrare con discrezione all’interno della valle. Avrebbero chiesto ai suoi abitanti ospitalità per svernare, accontentandosi di pochi pascoli, quanto bastava per poter sopravvivere! Nessuno di essi aveva visto quella valle, molti ne avevano sentito parlare come di qualcosa di meraviglioso, tanto che non tutti credevano alla sua esistenza. Quella notte finalmente il popolo dei Moh riuscì a dormire; nel fondovalle l’inverno era già domato! Tutti poterono nutrirsi: mucche e capre, dopo un abbondante pascolo, tornarono a dare latte per vecchi e bambini. Il giorno seguente il capo tribù, assieme ad un gruppetto di uomini, uscì in avanscoperta e si diresse verso la cima del monte sul quale si trovava il grande masso. Da lì avrebbe potuto osservare l’intera valle. Dopo qualche centinaio di metri di ascensione notò la grande distesa d’acqua fumante; di questa  conoscevano l' esistenza, in quanto era visibile anche dalle alture sulle quali erano situati i loro pascoli.

Il gruppetto continuò a salire e a addentrarsi nella valle tra i profumi dei prati, miracolosamente fioriti, e gli alberi colmi di frutti color oro che brillavano sotto i raggi del sole. Il capo tribù staccò un frutto giallo da un albero e provò a dargli un morso. Il frutto era durissimo, ma le sue forti mani riuscirono a schiacciarlo facendone uscire un succo aspro; il capotribù si leccò le mani, ma con un gesto schifato torse la bocca e gettò via il frutto. Non aveva mai assaggiato qualcosa di simile! Molti altri frutti, tutti simili al colore dell’oro, pendevano dagli alberi sempre più numerosi che incontravano lungo il loro cammino. Alcuni erano dolci, altri aspri, ma tutti mai visti prima d’ora. Anche il paesaggio che si stava svelando lentamente ai loro occhi non era stato mai visto così da vicino da alcuno di loro. La gran massa d’acqua fumante ricopriva l’intera valle; una parte di essa s'incuneava in una convalle che terminava ai piedi della "Stara Baba", ma lì quell’acqua era ricoperta di ghiaccio e le montagne di neve. Proseguirono nell’ascensione dirigendosi verso l’enorme masso che sovrastava la cima del monte. Ora si rendevano visibili ampi squarci di fondovalle dai quali provenivano numerosi muggiti di mucche e belati di pecore che pascolavano sui prati verdeggianti, ai bordi della distesa d’acqua. Tutto intorno, centinaia di alberi puntinati di giallo ed arancio diffondevano un profumo che permeava la valle e che nessuno di quegli uomini aveva mai sentito. Anche quelle piccole nuvolette di vapore caldo che, di tanto in tanto, raggiungevano il gruppo in avanscoperta avevano un odore strano. Ogni cosa era nuova e misteriosa in quella valle! Dall’alto riuscivano a distinguere in lontananza le cime delle montagne fumanti; quelle le conoscevano! Erano le montagne maledette che sputavano pietre di fuoco e facevano tremare i pascoli. Il capo tribù osservò, in basso, il suo accampamento: vide un piccolo gregge di pecore e capre, qualche mucca, ed uno sparuto gruppo di uomini. Nulla in confronto alle numerose greggi che ora vedeva pascolare nella "Valle d’Oro". Ai bordi di quel lago poteva osservare ogni specie di animale: capre, pecore, mucche, asini e cavalli ed altri ancora. Pensò che lì i sui uomini avrebbero trovato senz’altro ospitalità, del resto la valle era molto vasta. Avrebbe parlato con il capo di quella gente, avrebbe cercato di farsi capire, di spiegare che il suo popolo veniva in pace; avrebbe offerto qualche animale in cambio di un piccolo pascolo per le sue greggi. Da quella cima riusciva a scorgere anche la sua valle che aveva da poco abbandonato: era ricoperta di neve e gli alberi erano spogli. Il corso del "fiume freddo" era quasi invisibile sotto la sua calotta di ghiaccio e neve. Dirigeva lo sguardo, incredulo, dall’una all’altra valle, cercando di capire il perché di un inferno e di un paradiso. Giunto ai piedi del grande masso posto sulla cima del monte, volle salire su di esso per scrutare fino in fondo a quella valle, oltre la folta vegetazione. Si arrampicò sui castagni e, quando giunse sui loro rami più alti, si trovò all’altezza del masso. Con un gran balzo saltò su di esso. I suoi uomini a terra, impazienti, volevano sapere cosa avesse visto da quella roccia. Salendo, non aveva avuto il tempo di osservare attorno, ma ora osservava stupefatto le valle. Distingueva nitidamente il contorno del lago, che risplendeva sotto i raggi del sole; quell'enorme massa d’acqua s'incuneava in due valli, ma solo una era verdeggiante e rigogliosa; solo una rendeva vividi i raggi del sole, mentre nell’altra, una sottile coltre di neve copriva la distesa di acqua ghiacciata. Diresse lo sguardo verso le montagne fumanti;

 

sulle loro pendici, sparse qua e là, notava piccole nuvolette di vapore e, più a valle, sgorgavano tre enormi sorgenti di acqua calda che alimentavano e riscaldavano l’acqua del lago. Ora sentiva quell’alito che, spinto dal vento del nord, lo stava riscaldando ed ai suoi occhi si svelava il segreto di quella valle dall’eterna primavera. Pensò che finalmente anche il suo popolo avrebbe trovato la felicità. Se durante la stagione fredda si fossero insediati nei pressi di quel lago, non sarebbero stati attaccati così ferocemente dalle fiere affamate, non sarebbero morti tanti vecchi e bambini, e dopo il disgelo avrebbe potuto salire nuovamente sui pascoli della "Stara Baba" con tanti capi di bestiame e tanti uomini al seguito. La sua sarebbe diventata una tribù numerosa e potente. Stava ancora sognando, ed osservando quella valle beata, quando fu richiamato dalle grida allarmate dei suoi compagni: giù, in basso, la sua tribù veniva attaccata dagli abitanti della "Valle D’ Oro"! I suoi uomini, quasi disarmati, venivano trafitti con le frecce e le lance; vecchi e bambini venivano massacrati con le clave mentre altri uomini della "Valle D’Oro" s’impadronivano dei pochi animali, sospingendoli verso i loro territori. Numerosi altri gruppi provenienti dal lago stavano per aggiungersi agli assalitori. Il capo tribù con un enorme balzo volò sui rami del castagno e, sceso a terra, si precipitò verso il fondovalle per difendere la sua gente, seguito dagli altri uomini. Solo uno del gruppetto dei Moh si fermò, titubante, su quella cima. Nel tentativo di dare manforte ai suoi fratelli, prese delle pietre e cominciò a scagliarle verso il fondovalle, cercando di colpire il nemico che accorreva numeroso. Iniziò ad urlare, sperando di attirare a sé parte degli aggressori. Tutto fu inutile perché il nemico era molto lontano e tra le urla del combattimento nessuno si accorse della sua presenza. Egli, però, riusciva a percepire chiaramente le grida di dolore del suo popolo morente. Fra le tante gli parve di udire anche quella del suo figliolo; solo allora, colto dalla disperazione, si precipitò anch’esso verso valle. Percorse qualche centinaio di metri, ma capì che non avrebbe potuto fare nulla da solo, che sarebbe morto senza colpo ferire. Provava, accanto ad una sensazione di impotenza, tanta rabbia e voglia di vendetta. Tornò nuovamente verso la cima, per compiere un ultimo disperato tentativo. Prese dei rami e dell’erba secca; iniziò freneticamente a sfregare i rami tra di loro finche dall’erba uscì un debole filo di fumo; soffiò con forza tutto il  fiato che gli era rimasto nei polmoni in quel concitato andare e tornare. Finalmente dall’erba uscì una fiammella; la coprì trepidante con altra erba secca e foglie che s'incendiarono immediatamente. Prese il tutto con le mani, incurante delle scottature, e lo depose alle basi dei castagni che sorreggevano il grande masso. Ora correva freneticamente, cercando altre foglie e rami secchi per alimentare quel fuoco. In breve, un’enorme colonna di fumo si levò sulla cima di quel monte, passando inosservata tra i contendenti. Dopo breve tempo si levarono alte anche le fiamme, avvolgendo completamente i due castagni. Il calore era tale che al nostro guerriero fu impossibile avvicinarsi per deporre altra legna. I crepitii della legna ardente e delle pietre che esplodevano col calore, coprivano le urla della lotta a fondovalle. Il "Moh" capì che tutto era finito e che egli era rimasto l’unico superstite quando vide gli avversari salire la montagna e dirigersi verso di lui. Sfidando il calore, prese tutta la legna che aveva portato nei pressi del masso e la gettò sul fuoco. Un enorme falò stava avvolgendo i due castagni ed alcuni rami degli alberi cadevano già a terra in fiamme. Il "Moh" iniziò a lanciare addosso al nemico le numerose pietre che ricoprivano il terreno. Si trovava in una posizione privilegiata rispetto all’avversario che proveniva dal basso e le frecce che gli venivano scagliate contro non riuscivano ancora a raggiungerlo. Aveva raccolto attorno a sé numerose pietre, per potersi difendersi meglio. Finalmente riuscì a colpire il nemico, ora che si era avvicinato, e molti caddero nel tentativo di catturarlo. Si difese strenuamente ed a lungo, fino a che fu trafitto al collo da una freccia. Nonostante quella ferita, scagliò ancora molte pietre, ma, alla fine, crollò a terra esangue. Gli abitanti della "Valle d’Oro", esultanti, iniziarono a massacrare il suo corpo colpendolo a sassate. La sete di vendetta per le perdite subite era troppo grande, ed ora la rabbia di tutti trovava sfogo solamente sul suo corpo. Improvvisamente, poco sopra di loro, si udì un rumore secco: era uno dei due castagni che stava crollando divorato dalle fiamme. Lentamente, il grande masso ad essi appoggiato cominciò a scivolare, prima di lato, poi verso valle iniziando a rotolare. Gli uomini della "Valle d’Oro", vedendo che stavano per essere travolti, iniziarono a fuggire, ma tutto fu inutile e repentino. Il grande masso diede sepoltura anche al guerriero "Moh", e, proseguendo nella sua corsa verso valle, abbatté ogni albero e uomo che trovò sul suo cammino, il tutto accompagnato da un potente frastuono che cessò solo quando il masso terminò la sua corsa dirompente nelle acque del lago. Le dimensioni del masso erano tali, come pure la velocità che aveva raggiunto, che l’impatto con le acque fu violentissimo. Si formò una gigantesca onda che spazzò via tutte le capanne costruite lungo i bordi di quella distesa d’acqua, travolgendo uomini ed animali. L’onda si propagò lungo il lago giungendo fino ai piedi delle montagne fumanti, salì verso le pendici dei monti e poi si riversò ancor più dirompente verso valle creando uno squarcio nel terreno che faceva da diga. Attraverso quella falla iniziarono a defluire prepotentemente tutte le acque del lago, erodendo in breve il terreno, trascinando assieme a loro uomini ed animali, travolgendo vittoriosi e sconfitti. Nell’altro ramo del lago l’onda aveva fatto esplodere la lastra di ghiaccio che lo copriva ed ora un’enorme nuvola formata di acqua, ghiaccio e neve, disseminava ovunque quegli elementi. Terminato il deflusso delle acque, molti altri animali che popolavano il lago e che non erano stati trascinati via dall’enorme onda, morirono intrappolati in un mare di fango. Nessuno sopravvisse, né di una né dell’altra tribù. Anche la valle iniziò lentamente a morire. Gli alberi cominciarono a perdere le foglie, ed i fiori ad avvizzire. Gli uccelli e molti altri animali selvatici se ne andarono, cercando un altro luogo dove svernare. Pian piano, il gelo s'impossessò di quella valle, per la prima volta, dopo millenni! L’uomo, che poteva trovare il paradiso su quelle terre, le aveva distrutte!"

"Quello che mi hai raccontato è molto triste", disse Olga, "da allora è passato molto tempo, ma sembra che l’uomo sia rimasto sempre lo stesso. Dimmi che questa è solo una leggenda, che non lottarono mai contro se stesse le nostre genti."

"Certo che si tratta di una leggenda, che ci tramandiamo noi castagni per ricordare il sacrificio di quei due fratelli, arsi dalle fiamme, che poi ci permise di entrare in quella che una volta era la "Valle d’Oro". Però credo che i miei antenati abbiano assistito veramente a quegli eventi, poiché rimane ancora qualcosa che ci fa pensare che siano accaduti. Si dice che le verdi acque del fiume freddo, ricche di pesce, furono ricacciate verso nord dalle barriere di pietre sputate nei millenni seguenti dalle montagne fumanti. Ora, un altro fiume scorre al posto del "fiume freddo" e si chiama Natisone. I resti, ormai consumati del grande masso, si trovano in una gola chiamata "Pijon", proprio dove un tempo  uno sbarramento di terreno arginava le acque. Delle sorgenti d’acqua calda, che facevano di quella valle un paradiso, rimane solo un rigagnolo chiamato "Roja", dove i fiori fioriscono anche d’inverno. La discordia tra le due tribù che parlavano lingue diverse e che ha distrutto la "Valle d’Oro", è invece rimasta tutta e sta distruggendo nuovamente queste valli."

 

"Ma forse quegli uomini combatterono tra loro perché, in quei momenti, si trattava di una questione di sopravvivenza, dell’una o dell’altra parte. Forse gli abitanti della "Valle d’Oro" temevano che i "Moh" sarebbero diventati forti e li avrebbero scacciati da quel luogo."

"Vedi, Olga, ogni volta che l’uomo preparò una guerra, o si dovettero sacrificare delle persone, si riuscì a dare una valida giustificazione dell’inevitabilità dell’evento; ci fu sempre interesse superiore da difendere, un bene comune che andava salvaguardato; quello che poi sarebbe accaduto sarebbe stato il male minore, perciò cui andava accettato." 

>>  continua  >>