La chiave della chiesetta da San Silvestro.
-"Questo significa che siamo senza speranza. Anche il motivo più futile potrebbe diventare tremendamente
importante."
- "Certo! Anche in queste valli, a volte, da un motivo futile si creò una grande discordia."
- " Le tue parole mi fanno rabbrividire."
- "Non sono le mie parole che ti fanno rabbrividire, ma questo vento freddo che soffia e mi spinge a parlare."
- "Olga, indossa questa pelle di montone che ti riscalderà!"
-"Grazie, adesso non sento più il vento, potrò venire con te."
-"No! E’ pericoloso viaggiare di notte. Lungo la strada potremmo incontrare delle bestie feroci, o dei predoni. Preferisco partire da solo."
La strada di cui parlava Matteo, con tutte le sue insidie, era sconosciuta pure a lui. Sapeva che era lunga da percorrere, che avrebbe dovuto camminare giorno e notte, perché era povero e non poteva pagare un pernottamento, ma Matteo era un tipo testardo e spavaldo ed il disagio non lo intimoriva; nulla al mondo avrebbe fermato una sua decisione, anche se questa era osteggiata da tutti, o quasi…
Tra questi monti, ai tempi delle invasioni dei turchi, costruirono una chiesetta vicino una località chiamata "Bukin", situata in una valle ai piedi del Santuario della Madonna di Castelmonte. Lungo quella valle scorre un torrente di nome "Curlat", dalle acque limpide e talvolta tumultuose, popolato da trote e gamberi e profumato dalle essenze dei ciclamini che lungo quelle sponde crescono in abbondanza. I tempi erano tali che non si poté costruire la chiesa al centro di un paesino, o in bella vista su una collinetta, con una stradina che l’avrebbe collegata al villaggio sottostante. Si scelse il luogo più appartato, sicuro e difficile da raggiungere, ed il "Bukin" era veramente lontano da ogni via di comunicazione. In quella chiesetta gli abitanti dei paesi di Merso di Sotto, Picon e Azzida, che l’avevano costruita, pregarono assieme e chiesero a San Silvestro e alla Madonna la protezione contro gli invasori turchi, che razziavano questi paesi, e contro la peste che spesso li seguiva. Cacciati i Turchi e sopravvissuti alla peste, gli abitanti di questi villaggi dimenticarono in fretta le ragioni della loro unione che avevano portato alla costruzione di quella chiesetta. Non che la fede venne meno, anzi, tutti continuarono a frequentare la chiesa con fervore, ringraziando il Santo e la Madonna per le grazie ricevute, però, nella fretta della costruzione non avevano tenuto conto di qualche particolare. La chiesetta era vicina ai paesini di Merso di Sotto e Picon, ma il territorio sul quale era costruita faceva parte di un’altra giurisdizione che non includeva queste frazioni, bensì quella di Azzida. La chiesa era sempre aperta e tutti partecipavano alle sacre funzioni. Allora non c’era il pericolo di furti o atti vandalici, che proprio recentemente quella chiesetta ha dovuto subire, ma il falegname che costruì la porta volle donare al Signore qualcosa di completo, così la dotò anche di una serratura e di una chiave. Povero falegname! Se fosse stato più sbadato o economo avrebbe evitato a queste valli molti problemi. Così, dopo molti anni, qualcuno si chiese a chi spettasse la custodia di quella chiave. Naturalmente quella chiave era solo un simbolo, perché la porta era sempre aperta e la chiave infilata nella toppa, ma quella volta le valli, attorno a quell’oggetto, rischiarono di giocarsi la loro autonomia; e nacque un problema di stato… A ragione gli abitanti di Merso di Sotto e Picon ritenevano la chiesa di loro proprietà, in quanto i più vicini ad essa. Con altrettanta ragione gli abitanti di Azzida si ritenevano i padroni, in quanto la chiesa era costruita sul territorio della giurisdizione da cui dipendevano. Inizialmente la disputa ebbe toni scherzosi, ma si sa, ogni scherzo è bello se dura poco. Quella disputa invece sembrava non voler finire, anche perché, nel frattempo, la chiave sparì ed entrambe le parti si accusarono a vicenda dell’ignobile fatto. Nelle osterie, tra un bicchiere di vino e l’altro, questo discorso affiorava spesso e a volte terminava in lite. Oltre al possesso della chiave, per entrambe le parti si trattava anche di salvare l’onore da un accusa infamante di un atto sacrilego come quello del furto in una chiesa. Fu così che, nell’intento di porre fine a quella questione che si trascinava da mesi e che sembrava ormai irrisolvibile, gli abitanti di Merso di Sotto chiesero giustizia all’autorità competente. Si rivolsero ai membri della Banca di Merso, che aveva la giurisdizione sulle loro frazioni. Questa si riunì e deliberò che: "Considerata la vicinanza dei due paesi alla chiesa ed il fatto che in questa la Messa veniva celebrata dal curato di San Leonardo, che aveva in cura anche le anime dei paesi di Picon e Merso di Sotto, la chiave doveva essere custodita da questi ultimi. Questa decisione fece andare su tutte le furie gli abitanti di Azzida i quali, a loro volta, si rivolsero ai membri della Banca di Antro che aveva la giurisdizione sul territorio del loro paese e su quello dove la chiesetta era costruita. I membri della Banca di Antro diedero ragione agli abitanti di Azzida, motivando la sentenza col fatto che il giudizio della Banca di Merso era invalido, poiché questa non poteva emettere sentenze su un territorio non di sua competenza. In quei tempi, le Banche di Merso e di Antro erano due organi giurisdizionali, riconosciuti come tali dalla Repubblica Veneta. Quando i membri di queste si riunivano, nell'Arengo, legiferavano e giudicavano in piena autonomia da Venezia, che in quei tempi dominava quei territori. Queste erano il simbolo dell’autogoverno e dell’indipendenza delle Valli. Non era mai accaduto prima di allora che i due enti emettessero delle sentenze opposte. Soprattutto non si era mai verificato un conflitto di competenza. Chi aveva il diritto di emettere quella sentenza? Le campane suonarono per convocare l’Arengo. Questo significava che i membri delle due Banche si riunivano congiuntamente. Così fu, e discussero su entrambe le questioni, ma non vennero a capo di nulla, anzi, le posizioni di ciascuno s'irrigidirono. Nel paese di Merso di Sotto, Matteo fremeva. Forte della sentenza della Banca di Merso, aveva fatto costruire a un falegname una nuova serratura con una nuova chiave; aveva già attaccato la slitta ai cavalli e si stava dirigendo verso il "Bukin" per prendere la porta e portarla in paese per le modifiche. Un suo paesano, facente parte del Consiglio della Banca di Merso, vedendolo partire con la slitta e saputo delle sue intenzioni lo fermò e gli disse:
-"Matteo, ho saputo che stai per recarti a prendere la porta della chiesa di San Silvestro per sostituire la serratura"
- "Certo!", rispose Matteo, "è così che voi avete deciso."
- "Abbi pazienza! Ci riuniremo nuovamente e decideremo definitivamente sulla questione."
- "Definitivamente? Ma sono mesi che vi riunite senza prendere una decisione! Anzi, questa sembra ogni giorno più lontana"
- "Vedi, Matteo, la cosa non è semplice come può sembrare. Sono emerse delle cose nuove, mai accadute prima d’ora. Devi pazientare. Alla fine troveremo senz’altro un accordo."
- "Pazientare? Pazientare io? Io non aspetto! Vado a Venezia e faccio decidere al Doge"
- "A Venezia, tu? Ma non hai messo mai piede oltre queste valli! Non sapresti neppure che strada prendere. E poi? Chi ti capirebbe? Non conosci l’italiano né il latino; vesti come uno straccione, e vorresti farti ricevere dal Doge. I poveracci come te li prendono a calci nel sedere a Venezia!"
- "Tu non mi conosci, non sai chi è Matteo!"
- "E’ perché ti conosco che ti parlo. Pazienta ancora un poco, vedrai che troveremo un accordo."
- "Ah! Straccione… a calci in culo… ti farò vedere io, vi farò vedere a voi tutti chi sono!"
Matteo era uomo onesto e di buon cuore, ma più testardo di un mulo. Non conosceva la diplomazia e se decideva qualcosa nessuno riusciva a fargli cambiare idea. Rifletté un attimo sulle ultime parole del paesano, poi, s'incamminò verso il paese vicino dove risiedeva il suo curato. Giunto in canonica chiese alla perpetua di parlare con il curato. Non dovette attendere molto in quanto questi sapeva che era stato Matteo, assieme ai suoi paesani, a portare l’istanza della chiesetta di San Silvestro al giudizio della Banca di Merso, quindi era interessato all’evolversi di quegli eventi. Il curato, sebbene malconcio, appoggiandosi al suo bastone, andò incontro e Matteo il quale, si tolse il capello, lo salutò:
- "Sia lodato Gesù Cristo".
- "Sempre sia lodato", rispose il curato. "Caro Matteo! Quali buone nuove mi porti?"
- "Nessuna buona nuova. Qui non si decidono."
- "Ma che decisione attendi?" gli chiese il curato. "Ti riferisci forse alla chiesa di San Silvestro?"
- "Certo! Proprio alla chiesa!"
Senza neppure chiedere cosa volesse Matteo, il curato lo apostrofò con tono di rimprovero:
- "Non è possibile che dei cristiani si comportino in modo simile!" disse battendo sul pavimento il suo bastone; poi continuò con voce ferma, "Se attendi una decisione, una sentenza, questa la emetto io, ora! La chiesa è di tutti!"
Matteo rimase sorpreso da quell'inaspettata fermezza e presa di posizione che non dava adito ad ulteriori richieste, ma si riprese prontamente:
-"E il furto della chiave?" ribatté irritato, "Accusano noi! E’ una vergogna per tutto il paese!"
-"Dio conosce i colpevoli e al momento opportuno li giudicherà. Devi confidare nella giustizia divina e non in quella umana che, come vedi, é lunga e indecisa."
-"Io la voglio abbreviare! Andrò a Venezia dal Doge. Farò decidere a lui. E’ per questo che sono qui!"
-"Non capisco che cosa centro io con il Doge?" chiese incuriosito il curato.
-"Reverendo, io non so né leggere né scrivere, né tanto meno parlare italiano o latino. Se lei che è uomo di chiesa mi scrivesse due righe, in latino, da poter presentare al Doge, io parto per Venezia oggi stesso."
-"Ma cosa vuoi che scriva? Te lo ripeto! Quella chiesa non ha un padrone, è di tutti!" Matteo comprese che non era quella la via da seguire per ottenere ciò che voleva, così provò a cambiare tattica.
-"Reverendo, ma se la chiesa è di quelli di Azzida, perché venite Voi a fare messa là? Perché venite Voi al nostro paese a prendere la "berarnja" (le decime)."
-"Ciò che offrite non lo date a me, ma alla chiesa. Se la mia mano si protende per ricevere la carità, è il Signore che la muove."
-"Reverendo. Se il tribunale affida la chiesa ad Azzida a chi dovremmo consegnare la "berarnja" (le decime) ?"
-"Ma che discorsi tiri fuori?" disse il curato stizzito.
-"Ha ragione!" proferì una voce da una stanza adiacente. "Se la chiesa sarà di quelli di Azzida, e dirà messa un altro curato, avrà diritto lui alla "berarnja", e, con i tempi che corrono, c’è poco di che scherzare. Si digiuna già così ogni giorno!"
-"Taci tu!" disse il curato, rivolgendosi alla perpetua, "Sappi che il digiuno è la salute dell’anima!"
-"Allora Vi comunico che oggi le nostre anime godranno di ottima salute!" replicò la perpetua.
-"Torna al tuo lavoro in cucina e lasciaci in pace!" chiuse seccato il curato. Nonostante le apparenze, le parole della donna indussero il curato ad abbandonare momentaneamente le esigenze sublimi dell’eternità futura, per concentrarsi su quelle più misere, quotidiane, ed il suo atteggiamento mutò repentinamente: "E tu Matteo, non startene in piedi, siedi! " lo esortò il curato rimettendo in ordine la sua scrivania. "Vedi, non posso esprimere il mio pensiero liberamente, di fronte ad altre persone, e poi, le chiese, sai, sono di tutti; però pensavo al tuo paese che è sempre presente con tutte le sue anime alle messe; anche la Tonina, che ha più di novanta anni non ne perde una. Io vi conosco, uno ad uno, ascolto le vostre confessioni, conosco la vostra fede. Non mi sembra giusto che non abbiate una chiesa tutta vostra."
-"Certo che non è giusto", ribatté Matteo.
-"Vedi", continuò il curato, "la cosa non è semplice come ti può sembrare, sta diventando un affare politico."
-"Ma, signor curato, parlate anche Voi come quelli là, che si riuniscono da mesi e non hanno ancora preso una decisione. Ho capito, Volete mandarci a messa con quelli di Azzida."
-"No, no ...", si corresse prontamente il curato, "volevo solo dire che, ci vuole tatto, circospezione. Prendi questa penna e mordi la punta, tu che hai i denti buoni."
-"Ma signor curato, volete scherzare o mi prendete in giro?" rispose Matteo sbalordito.
-"Mordi, ti dico, poi capirai" insistette il curato.
-"Matteo morsicò la punta della penna, ancora sporca d’inchiostro poi si voltò verso la finestra e sputò in cortile."
-"Ecco perché ho sempre odiato carta e penna", disse Matteo passando il dorso del braccio sulle labbra, "questo inchiostro è nero e aspro come il nostro vino, però è disgustoso."
-"Certo, tu odi carta e penna, ma al bisogno vieni a mettere nei guai il tuo curato."
-"Ma quali guai?" disse Matteo, "anzi, uno di questi giorni Vi manderò mia figlia Olga. Abbiamo appena tirato su una bella covata di conigli. E poi, se parto per Venezia …dicono che in quel porto si trovi ogni ben di Dio."
-"Ma ci vogliono i soldi, e tu sei poveretto", ribatté il curato, "Poveretto ma onesto", si corresse alla fine.
-"Porterò con me due sacchi di castagne, dei rastrelli e delle gerle. Venderò tutto al mercato, anzi …dovrò lasciare qualcosa per il Doge, se vorrò essere ricevuto."
-"Matteo, ascolta il tuo curato, stai facendo una pazzia. Ti metterai nei guai. Comunque ricorda, la pazzia è solo tua, mi comprendi?"
-"Credo di si… o forse no", rispose Matteo sottovoce, timoroso di contrariare il curato che aveva iniziato a scrivere.
-"In questo momento ti sto confessando", disse il curato. Matteo giunse le mani e si inginocchiò.
-"Ma che hai capito! Volevo dirti che ciò che tu mi hai raccontato è una cosa segretissima, che deve restare tra te e me, come in confessione. Il tuo curato non dirà nulla a nessuno e tu pure sarai muto come una tomba. Nessuno rivela i propri peccati. Questa lettera non l’ho scritta io. Ci siamo capiti?"
-"Sì ora comprendo" disse Matteo, "veramente nessuno crederebbe che quella lettera l’abbiate scritta Voi. Sembra la scrittura di un analfabeta."
-"Ma cosa capisci tu, che non sai né leggere né scrivere!" rispose irritato il curato. "Se la punta della penna era rovinata non poteva venire scrittura migliore. Ho dovuto prendere le mie precauzioni. Su ora vai che ho da fare, e, ricorda, non sei mai stato qui! Salutami Olga. E’ una brava bambina. Anzi, se passa di qui, dille che venga pure a trovarmi."
-"Grazie reverendo, non mancherò" disse Matteo congedandosi con un inchino.
-"Matteo!"
-"Che c’è reverendo?"
-"Non tenere la lettera in mano. Nascondila nella giacca fino al tuo arrivo a Venezia."
-"Certo reverendo, certo, sia lodato Gesù Cristo".
Appena uscito dal paese, Matteo prese tra le mani quel pezzo di carta e cominciò a guardarlo girandolo in tutte le maniere possibili. Purtroppo non riusciva a capire niente di cosa fosse scritto sopra, ma ora voleva conoscere il contenuto di quella lettera. Del curato poteva senz’altro fidarsi, ma preferiva presentarsi al Doge sapendo che cosa conteneva quel foglio. In quelle valli pochissime persone conoscevano il latino, e Matteo, per farsi leggere quella lettera si recò immediatamente da un membro della Banca di Antro, dal quale una volta aveva udito proferire delle parole strane, simili a quelle usate dal sacerdote durante la messa. La scelta di quella persona non fu casuale, in quanto Matteo voleva dimostrare agli avversari di cosa era capace e la sua risolutezza.
- "Capovolgi la lettera, somaro", gli disse il membro della Banca, "non ho ancora imparato a leggere a rovescio". Matteo capovolse la lettera torcendo le mani e tenendola a dovuta distanza dall’uomo. Non voleva abbandonare quel pezzo di carta così importante per lui neppure per un attimo.
- "Chi ha scritto queste cose?" gli chiese il membro della Banca.
- "Non lo saprai mai!" rispose Matteo con tono di sfida.
- "Quello scritto è una falsità! Solo così riuscirete ad impadronirvi della chiesa", rispose irritato il membro della Banca.
- "No, qui c’è la verità! E con questa verità mi recherò dal Doge. Partirò domani stesso, dopo il tramonto."
I due si lasciarono e Matteo tornò a casa esultante facendo vedere alla moglie quel foglio prezioso.
-"Ma che cosa c’è scritto sopra?" gli chiese la moglie.
-"Non lo so di preciso, ma senz’altro dice che la chiesa è nostra. Sai l’ha scritto il curato. Domani sera partirò per Venezia; vorrei essere là già nella mattinata del giorno seguente. Raccogli in solaio le castagne più grosse che abbiamo e riempi due sacchi. Ammazza la coniglia, quella sterile, e dalla a Olga che la porti al curato. Venderò le castagne al mercato e comprerò del sale. Dove c’è il mare il sale è a buon mercato." Per tutta la giornata in casa di Matteo continuarono con frenesia i preparativi per quella partenza. La moglie di Matteo andò a chiedere per il paese ceste, gerle, rastrelli, ed ogni cosa che poteva essere venduta al mercato. Matteo sperava di concludere dei buoni affari ed alla fine, col ricavato, avrebbe ripagato tutti. Analoga frenesia quella sera aveva colto i membri delle due Banche questa volta riunite d’urgenza e senza il richiamo delle campane. Quella riunione doveva restare segreta! Dovevano prendere una decisione rapida, grave e dolorosa! Iniziò a parlare il membro della Banca d’Antro, quello che aveva letto la lettera di Mattia, rivolgendosi con parole durissime ai convalligiani della Banca di Merso.
- "Quello che sta per succedere è vergognoso, inaudito, e tutto per causa vostra. Non solo avete giudicato su cose che non vi competevano, ma addirittura avete consegnato a Matteo uno scritto pieno di falsità perché, in base ad esso, Venezia dia un giudizio a voi favorevole". Si alzò in piedi il rappresentante della Banca di Merso e replicò: "Nulla di più falso! Io sono paesano di Matteo, sapevo di questa sua decisione e Dio solo sa quante volte gli ho detto di pazientare. Nessuno di noi ha scritto quella lettera, di questo ne siamo certi, perché tra noi solo due persone conoscono quella lingua e le loro parole sono degne di fede. Riguardo alla sentenza, sapete bene che né noi né voi possiamo dare giudizi sui beni appartenenti alla chiesa."
- "E chi può avere scritto una lettera simile allora? Spero che comprendiate anche la gravità della situazione che si sta creando in questo momento in queste valli", ribatté il membro della Banca di Antro. "Mai prima d’ora i nostri tribunali si erano trovati in conflitto. Ma c’è un fatto ancora peggiore! Se Matteo domani si recherà a Venezia e racconterà ciò che sta succedendo tra noi, come pensate che Venezia giudicherà il nostro comportamento? Ci riterrà incapaci di amministrarci, ci toglierà le nostre autonomie e magari affiderà la giurisdizione di queste valli a qualche signorotto di Cividale, che non attende altro. Che ne sarà di noi? Saremo schiavi di Venezia e Cividale."
- "Bisogna impedire a Matteo di recarsi a Venezia", disse un altro membro.
- "Certo, sono d’accordo pure io, purché nel frattempo dirimiamo le nostre questioni", disse un terzo.
- "Ma come si può fermare Matteo?" disse il suo paesano. "Io lo conosco, è una testa calda; nessuno riuscirebbe a fargli cambiare ciò che ha deciso."
- "In ogni caso Matteo non deve arrivare a Venezia", disse un membro della Banca di Antro.
- "Che cosa significa non deve arrivare?" chiese il paesano di Matteo.
- "Se non possiamo impedirgli di partire faremo in modo che non giunga mai a destinazione", fu la risposta.
- "E come si può fare ciò?"
- "Se la nostra volontà è questa, sarebbe meglio decidere chi farà ciò"
- "Ma siete pazzi? Capisco bene cosa intendete?"
- "Hai capito benissimo!"
- "Io lascio questa assemblea di assassini. Abbiamo lottato contro i Turchi ed altri invasori per salvare le nostre terre, le nostre case, i nostri figli, ed ora ci accaniamo contro noi stessi?"
- "Cerca di immaginare cosa accadrà alle nostre famiglie se perdiamo la nostra autonomia. Moriremo di fame soffocati dai balzelli di chi ci comanderà. Fino ad ora non abbiamo versato tributi a nessuno! Cerca di immaginare i nostri figli arruolati in altri eserciti. Fino ad ora nessuno di noi è morto combattendo per altri! Si tratta di sacrificare una vita per salvarne cento, mille o forse più."
- "Io non mi sento di prendere questa decisione. Conosco Matteo, sua moglie, sua figlia Olga; lasciate che gli parli."
- "No! Tu stesso hai detto che è impossibile fargli cambiare idea. Guai se solo immaginasse quello che stiamo per decidere. Guai se qualcuno spargesse la voce. Se Venezia venisse a sapere di questa nostra decisione, ci giudicherebbe e condannerebbe come degli assassini. Metteremo questa decisione ai voti e come sempre ci assoggetteremo al volere della maggioranza."
- "Ma a chi toccherà attuare la sentenza?"
- "Matteo, con il suo carattere si è già creato qualche inimicizia, ed ora qualcuno non attende altro che il momento più opportuno per regolare il conto."
- "Ma se avete già trovato il boia significa che avete emesso la sentenza prima che questa corte decida."
- "A volte non si può fare a meno di certe decisioni. Il voto diventa solo una formalità."
- "Ma..vogliono uccidere il mio babbo!" urlò Olga disperata al castagno, "Fai qualcosa!"
- "Purtroppo, nella storia, situazioni anche più tragiche di questa si sono ripetute frequentemente. Talvolta gli eventi evolvono in modo tale che nessuno, pur desiderandolo, è in grado di fermarli o correggerli. E’ la storia, che sembra già scritta, che deve fare il suo corso schiacciando e divorando l’uomo. Solo dopo ci si rende conto che la storia doveva essere cambiata. Ma questa convinzione è durata sempre poco. Noi castagni dovremmo ricordarvi più spesso queste cose, dovremmo tutti imparare a parlare, ma non è facile. Dovremmo vivere più a lungo per riuscire a fare ciò. Se tu fermassi le accette dei valligiani, potresti salvarci."
- "In questo momento non ho tempo, devo salvare il mio babbo! Ti prego castagno aiutami! Dimmi cosa posso fare!"
- "Non levarti di dosso quel montone e sii più testarda di tuo padre."
- "Ma babbo, non ho freddo! Dormirò al tuo fianco mentre guiderai il cavallo"
- "Olga, devi restare accanto alla mamma. Penso che pure lei stanotte non dormirà, sapendomi in viaggio."
- "Neppure io dormirò lontana da te! Babbo voglio vedere da vicino quel mare che vedo dai monti, voglio vedere le navi, voglio vedere Venezia."
- "E va bene piccola. Allora partiremo domattina all’alba. Adesso vai a dormire perché il viaggio sarà lungo e faticoso."
Quella sera Olga, felice ed eccitata, non riuscì a dormire. Non dormì la mamma, che dovette preparare ulteriori vivande per la figlia. Non dormì il babbo, per quella preoccupazione in più che si era aggiunta all’ultimo momento. Non dormì il suo boia, che lo attese invano per tutta la notte sulla strada. Non dormirono i membri delle due Banche, nell’attesa di ricevere la notizia dell’esecuzione.
- "Ma come? Non è possibile! Buono a nulla, ti sei addormentato."
- "No! Vi giuro! Ho atteso tutta la notte ma non è passato. Qualcuno deve avere fatto la spia ed avrà preso un’altra strada"
- "Se le cose stanno così sappiamo tutti chi è il traditore tra noi. Bisognava ammazzarne due!"
Mentre nelle valli si pronunciavano queste parole, Mattia e Olga avevano già lasciato le nostre montagne e iniziato l’attraversamento di una sterminata pianura. Mattia si trovava in difficoltà in quanto lungo il percorso gli mancavano i riferimenti che era solito avere tra i suoi monti. In quei luoghi non esisteva una valle da percorrere o una cima verso la quale dirigersi. La strada che aveva imboccato era ampia e conduceva attraverso una sterminata pianura. Di tanto in tanto volgeva lo sguardo alle sue spalle controllando che dietro ci fosse sempre il suo faro: il monte Matajur. Era così che qualcuno gli aveva consigliato di fare. Quando anche quella cima scomparì dai suoi occhi, Olga iniziò a fare al babbo un sacco di domande strane:
- "Babbo ma cade la neve qui?"
- "Certo che cade."
- "Ma da dove arriva se non ci sono le montagne?"
- "Scende giù dal cielo, come da noi."
- "Non riesco a capire", disse Olga.
- "Babbo, babbo, ma c’è l’acqua qui?"
- "Ma certo che c’è!"
- "Ma da dove sgorga se non ci sono le montagne?"
- "Sgorga dai nostri monti, da dove siamo partiti, e si dirige verso il mare, proprio come noi."
- "E il sole dove tramonta se non ci sono le montagne qui?"
Matteo non aveva la pazienza di rispondere a tutte quelle domande e per quella bimba, nata e vissuta tra i monti, quei luoghi erano veramente strani. Il carretto a due ruote che il cavallo trainava instancabile, serviva per tirare i grossi tronchi fuori dal bosco; per quell’occasione Matteo aveva fissato su di esso un enorme cesta di vimini che veniva usata per portare il letame negli orti e nei campicelli privi di strade adeguate. Sdraiata in quella cesta, tra i sacchi colmi di castagne ed un fascio di fieno, cullata dagli scossoni talvolta violenti di quel carretto, avvolta nella sua pelle di montone, Olga si era assopita. Anche il capo di Matteo, che il carretto faceva sballottare, di tanto in tanto crollava improvvisamente. Solo il cavallo, sgravato dal solito fardello, proseguiva leggero, anche senza guida, seguendo la strada e gli altri viandanti. Matteo di tanto in tanto si svegliava bruscamente e osservava il paesaggio sempre identico. Non riusciva a capire di quanto avesse proseguito dopo l’ultimo risveglio. Talvolta, per attraversare qualche guado, era costretto a scendere dal carro e a guidare il cavallo in mezzo alle acque afferrandolo per le briglia. Allora consegnava alla figlia le sue scarpe di stoffa nel timore che la corrente del fiume le portasse via. La giornata stava giungendo alla fine. Olga osservava il sole enorme che tramontava sotto la pianura ricevendo dalla natura le risposte alle sue domande. Qualcosa diceva loro che la meta era ormai vicina: i carri e le persone che transitavano su quella strada si facevano sempre più numerosi. Nonostante ciò, decisero di fermarsi. Si stava facendo notte e anche il cavallo aveva bisogno di riposo. Seguirono un gruppo di cavalieri e di carrettieri che si stava dirigendo verso una grande stalla nei pressi della quale sostava una moltitudine di persone. Molti accendevano fuochi per scaldare le vivande, altri dormivano avvolti in una grande coperta scura; si udiva in lontananza il suono di un violino: sembrava quasi l’inizio di una festa. Poco distante, i cavalli legati in riga ad una staccionata, venivano foraggiati e dissetati. Matteo era stato previdente e aveva portato con sé del suo fieno facendo così qualche piccola economia; chiamò Olga nei pressi di un pozzo dove c’erano numerosi mastelli in legno. Pescò l’acqua dal pozzo finché riempì un mastello. Entrambi bevettero l’acqua e si rinfrescarono il viso e le mani, poi portarono il mastello al loro cavallo affinché bevvesse. Matteo iniziò a frugare tra il fieno che era rimasto sul carretto, estrasse una piccola cesta nella quale aveva riposto del cibo e fecero cena. Polenta fredda, salame, formaggio e uova sode. Quello sarebbe stato il loro menù per cena, colazione e pure a pranzo. Olga iniziò a vagabondare incuriosita tra quei gruppi di persone e tra i carri colmi di merci. Su di essi c’era tutto quello di cui una città poteva avere bisogno: sacchi ripieni di granaglie, patate, botti colme di vino, gabbie nelle quali era rinchiuso ogni genere di animale da cortile, fieno, legname e molte altre merci ancora. Teneva stretto tra le mani il suo pezzo di polenta e ascoltava incuriosita il dialogare dei viandanti. Non aveva mai udito prima di allora parlare quelle lingue, ma fra tutte quelle persone, c’era anche chi parlava una lingua simile alla sua. Del resto, il palato raffinato dei Veneziani, richiedeva prodotti da tutta l’Europa. Ritornò dal suo babbo che stava frugando nuovamente in mezzo al fieno. Alla fine tra le mani di Matteo comparvero delle pere e delle mele. Il lamento del violino continuò per tutta la notte, tra i canti di alcuni viandanti ubriachi e l’abbaiare dei cani. Olga, avvolta nella sua pelle di montone, si era accovacciata nella cesta, e infilatasi nel fieno osservava il sorgere della luna. Matteo si era sdraiato sotto il carro e approfittando di quel tenue chiarore cercava di decifrare la lettera che suo curato gli aveva preparato. Alla fine, stanco, disse le preghiere e si addormentò. Il giorno seguente il carretto si mosse di buon mattino. Matteo doveva sbrigare molte faccende quella giornata: innanzitutto la visita al Doge, poi la vendita dei suoi prodotti al mercato, ed alla fine, qualche acquisto. Prima di lasciare quel luogo si fece dare delle indicazioni sul percorso da intraprendere da alcuni commercianti con i quali riuscì ad intendersi. Capì che era già molto vicino a Venezia. Dopo solo un paio d’ore di cammino tra alberi e canneti comparve improvvisamente davanti ai suoi occhi il mare.
- "Olga! Olga! Vieni a vedere!"
Matteo chiamava la figlia che dormiva in mezzo al fieno come se si trovasse sulla cima di una montagna. Si capiva che era eccitato. La visione di quell’enorme distesa azzurra lo lasciava stupefatto e felice come un bambino. La sua gioia in quel momento fu grande perché finalmente era giunto alla meta. "E’ fatta!" pensò tra sé. "Tra breve saremo sulla via del ritorno." Olga, che aveva ancora addosso la stanchezza della giornata precedente, sollevò lentamente il capo, quel tanto che bastava affinché i suoi occhi vedessero oltre la cesta nella quale continuava il suo dormiveglia. Matteo, accortosi del sonno della figlia, smise di urlare e proseguì in silenzio lungo la strada seguendo la processione di gente che si stava formando verso quella città. Olga osservava la bellezza di quel mare che rifletteva i raggi del sole contro i suoi occhi; notava in lontananza la città, con le cupole delle chiese illuminate dal sole. Lo stupore di entrambi si manifestava in silenzio, quando ad ogni incrociarsi dei loro sguardi, sui loro volti appariva un dolce sorriso. Giunsero vicini alla città, in un punto dove sostavano numerosi carri. Alcuni carrettieri scaricavano le loro merci su quello spiazzo, altre, venivano caricate su delle barche. Matteo cercò invano di chiedere che cosa stesse succedendo, ma purtroppo non riuscì a farsi capire; si avvicinò con il suo carretto ad un barcaiolo il quale, a sua volta, capì subito di cosa avesse bisogno Matteo.
- "San Marco?" gli chiese questi.
- "Doge", rispose Matteo. Il barcaiolo annuì e senza parlare fece caricare le merci sulla sua barca; poi indicò a Matteo dove doveva lasciare il carro ed il cavallo; gli mostrò una moneta, e gesticolando fece capire che voleva il pagamento del tragitto in anticipo. Matteo tirò fuori dalla sua giacca tre monete e le fece vedere al barcaiolo. Questi afferrò la più grande, poi prese per mano Olga e la fece salire sulla barca, adagiandola tra i due sacchi di castagne. Olga osservava tutt’attorno in silenzio. Anche Matteo era diventato cupo e silenzioso. La moneta grande finita nelle tasche del barcaiolo lo aveva reso di pessimo umore. Il barcaiolo non si decideva a partire e chiamava a se chiunque passasse nei pressi della sua barca. Finalmente salirono altre persone e fu caricata ancora merce. Ad ogni collo che veniva gettato sulla barca, questa oscillava paurosamente e sprofondava. Nel frattempo l’acqua del mare aveva iniziato a lambire il bordo della barca appesantita dalla tutta quella merce e quelle persone. Quella situazione stava infastidendo Matteo, che iniziava pure a soffrire di mal di mare. Egli era abituato a posare i piedi sulla terra ferma per cui innervosito e spazientito, urlò:
- "Quanti soldi vuoi guadagnare ancora, maledetto barcaiolo, deciditi a partire che io ho cose importanti da trattare qui. Devo incontrare il Doge!"
Il barcaiolo non comprese nulla di quelle parole. Si piazzò in coda alla barca e iniziò a remare. Olga mise un mano nel mare ed iniziò a giocare con le onde. Raccolse nel suo palmo un poco d’acqua e la portò alla bocca. Era salatissima e la sputò subito. Matteo si mise a ridere e spiegò alla figlia che l’acqua del mare non era come quella delle loro fonti. Qualcuno su quella barca ascoltava incuriosito i dialoghi tra i due. Dopo un poco si avvicinò a Matteo e gli chiese:
- "Ho sentito che devi incontrarti con il Doge. Chi sei tu che hai questo privilegio? Di solito gli straccioni attendono il Doge ai bordi della strada e solamente per ricevere un poco di carità. Tu avresti addirittura cose importanti da trattare. Da dove vieni, tu che non parli la nostra lingua?"
- "Vengo dalle montagne poste a confine dalle terre di Venezia e ho portato al Doge i nostri prodotti: castagne e manufatti in legno, in cambio di un pò di giustizia. Ma chi sei tu che comprendi la mia lingua?"
L’uomo non rispose e chiese sottovoce a Matteo: "Di che cosa sei accusato? Hai rubato? Hai forse ucciso qualcuno? Ti vogliono arrestare?"
Matteo rispose stizzito: "Ma che stai blaterando. Io sono una persona onesta. Non ho fatto male a nessuno. Voglio, anzi, vogliamo che ci sia resa giustizia. Sai leggere tu?"
- "Certamente", rispose l’uomo, "Ho girato il mondo e parlo diverse lingue; ma dimmi, di che si tratta?"
Matteo iniziò a raccontare all’uomo la storia della chiesa ed il motivo del suo viaggio a Venezia.
Alla fine l’uomo scoppiò in una risata fragorosa, e rivolgendosi ai suoi vicini disse: "Avete sentito? Quest’uomo vorrebbe essere ricevuto dal Doge… per una chiesetta…dal Doge in persona!"
Tutti si misero a ridere. Matteo, spazientito, estrasse la lettera e disse: "Ecco qua! Questa lettera è per il Doge. Leggi, leggi anche tu, così ti persuaderai." Tutti si avvicinarono a guardare incuriositi quel pezzo di pergamena, ma solo quel tizio sembrava comprenderne il contenuto. Questi prese il foglio tra le mani, lo osservò, lo rivoltò, poi con fare serio disse: "Mmm…sono cose serie, ma non sufficienti per fare smuovere il Doge. Che cosa vorresti da lui?"
- "Che risponda a questa lettera, che sentenzi con uno scritto che la chiesa è nostra", disse con tono fermo Matteo.
- "Sei veramente fortunato ad avermi incontrato. Potrei essere la persona che fa per te. Non vorrei contraddirti, ma, credimi, queste questioni sono di secondaria importanza per il Doge."
- "Ma che dici!" urlò Matteo, "Tu pensi che io sia venuto fino qui per delle sciocchezze?"
- "No, non volevo dire questo; volevo solamente dire che su queste cose le decisioni vengono prese da altre persone; il Doge, alla fine, appone solamente la sua firma, accanto il sigillo di Venezia, sulla pergamena contenente il testo che altri hanno preparato per lui."
- "E chi sarebbero queste altre persone?"
- "Ti ripeto, sei stato fortunato ad incontrarmi. Io conosco proprio colui che si occupa di questi casi."
- "Chi è? Dimmi chi è?" chiese con impazienza Matteo.
- "Un attimo di pazienza! Questo signore ha sempre un gran daffare e pure io, per farmi introdurre da lui, devo lasciare qualche obolo qua e là, e non parliamo poi delle sue richieste! Quanti denari hai con te?"
- "Che? Vorresti da me denaro? Dovrei pagare per ricevere giustizia? Giammai!"
- "Allora non verrai a capo di nulla", rispose seccatamene quel tizio.
- "Tu non mi conosci! Non sai chi è Matteo! Ho camminato per un giorno ed una notte per arrivare fino qui, ed ora nessuno mi fermerà."
- "Guarda le altre barche. Dove pensi siano dirette? Osserva le persone che trasportano: nobili, signori, ricchi uomini d’affari. Guarda con quante e quali merci si recano alla corte. Credo che capirai da solo quanto lunga dovrà essere la tua attesa. Quanti soldi hai per restare in questa città?" Matteo divenne improvvisamente pensieroso e chiese: "Ma cosa devo fare allora?"
- "Nulla, proprio nulla. Le persone testarde come te non giungono mai a capo di nulla, quelle scaltre invece…"
- "Che cosa vorresti dire?"
- "Vedi Venezia? E’ piena di canali, ponti, vicoli… un vero labirinto per un forestiero! Chiunque si perderebbe! Eppure ti sei affidato ad un barcaiolo esperto che senz’altro ti condurrà in piazza San Marco. Le faccende politiche sono ancora più intrigate! Vedi quanti palazzi ha Venezia? Palazzi, con innumerevoli scale; scale che conducono a corridoi con decine di porte; porte che danno accesso a stanze piene di scaffalature; scaffalature che sorreggono pile di pergamene sulle quali sono scritti testi di leggi e regolamenti. Roba da spaventare anche gli avvocati più esperti. Tu vorresti arrivare nella stanza giusta da solo, e lì trovare la legge che fa per te? Non ci riuscirai mai! Se ti affidi a me otterrai quello di cui hai bisogno". Le argomentazioni e la veemenza oratoria con la quale quel signore si rivolgeva a Matteo stavano scalfendo quella roccia.
- "E tu, cosa vorresti in cambio?"
- "Nulla, a me non devi nulla!" rispose il tizio con fare quasi offeso, "Ciò che ti chiedo non è per me, ma serve aprire le porte, ungere le serrature, fare aprire i cassetti, rovistare tra le carte, e poi..."
- "E poi..?" chiese Matteo, quasi ipnotizzato dalla loquacità di quell’uomo. "E poi, trovata la legge a te favorevole, sarà necessario far scrivere quella lettera, quella dichiarazione da sottoporre per la firma al Doge, te lo sei già scordato?"
- "No, no, hai perfettamente ragione." Quel personaggio sembrava onesto e disinteressato, e per di più parlava la sua lingua!
- "Io ho solo queste castagne. Pensavo di venderne una parte, e donare la rimanenza al Doge. Ho anche delle gerle, ceste e rastrelli, cose che produciamo sulle nostre montagne e che vorrei vendere al mercato."
- "Ma non ti sei accorto che a Venezia nessuno lavora! Quale erba raccoglierebbero qui i tuoi rastrelli? Con quale frutta riempirebbero i veneziani le tue gerle? Quegli oggetti qui non hanno valore! Ma non possiedi denaro?"
Che in quella città nessuno lavorasse, perlomeno come lui concepiva il lavoro, questo, Matteo se l’era già chiesto. Come facesse a vivere tutta quella gente, era un mistero al quale doveva dare ancora spiegazione. Il volto di Matteo si faceva sempre più scuro perché vedeva sbriciolarsi uno dopo l’altro i suoi progetti. Cominciava a sentirsi a disagio in quel luogo. Quell’acqua sembrava emanare un odore nauseabondo di pesce al quale non riusciva ad abituarsi. In quel momento si sentì piccolo, fra tutti quei mercanti, povero fra tutti quei signori, instabile e timoroso per stare eretto su di una barca, al confronto dei barcaioli che addirittura, remando, cantavano. Solo allora si rese conto che le vesti che indossava erano degli stracci, se paragonati a quelle variopinte dei veneziani. Come aveva potuto immaginare di poter chiedere udienza al Doge? Olga intanto continuava ad accarezzare le onde del mare, ma il suo volto era rivolto costantemente verso l’alto. I suoi occhi, dopo l’oscurità del passaggio sotto i ponti, attenuata dai riflessi di luce solare ondeggianti sotto le volte, venivano abbagliati dal comparire improvviso del sole, ma non per questo abbassava il suo sguardo. I palazzi decorati, le abitazioni che sbucavano dall’acqua, le cupole delle chiese, i ponti con le scalinate e i parapetti in pietra che venivano attraversati da persone con vesti colorate, la incantavano. Fino a quel momento era rimasta in silenzio, estranea ai dialoghi del babbo e degli altri signori. Ad un tratto emise un grido che fece tacere tutti:
-"Babbo! Babbo! Guarda che campanile immenso!" Olga aveva urlato con una tale veemenza che anche chi non aveva compreso le sue parole seguiva il suo dito puntato verso il cielo. Anche Matteo smise di parlare ed osservava con il naso all’insù quel campanile che scorreva di fronte a lui.
- "La chiesa! Babbo guarda la chiesa!" Marco si segnò e continuò a guardare in silenzio. Gli altri uomini si alzarono in piedi ed iniziarono a raccogliere gli oggetti che avevano deposto sulla barca, segno questo che erano giunti al capolinea.
- "Matteo scaricò i due sacchi di castagne sul bordo della piazza. La figlia dalla barca gli gettò i rastrelli le ceste e le gerle. Poi tutti scesero."
- "Caro amico ti saluto", gli disse il tizio che l’aveva accompagnato, "Cerca di non perderti in questa città e stai attento agli imbroglioni, c’è ne sono dietro ogni angolo!"
- "No fermati, attendi un attimo!" gli gridò Matteo vedendo che stava per allontanarsi.
- "Non ho tempo da perdere con quelli come te. Devo sbrigarmi. Ho un appuntamento urgente con un ministro della Repubblica." Matteo lo rincorse e lo trattenne per la veste:
- "Riusciresti veramente a procurarmi quel documento e a farlo firmare al Doge? "
- "Non fare altre domande senza prima aver risposto alle mie. Quanto denaro hai con te? Te lo chiedo per l’ultima volta."
- "Di quanto denaro hai bisogno?"
- "Fammi vedere quanto ne possiedi!" insistette il tizio. Alla fine Matteo si arrese e sbottonò i calzoni dai quali estrasse, da una tasca interna cucita dalla moglie proprio per quella occasione, alcune monete. L’uomo le osservò un attimo scotendo la testa:
- " Mmm…veramente poco! A Venezia per queste quattro palanche non si gira nessuno. Svuota le altre tasche!"
- "No, ti giuro che non posseggo null’altro!"
- "Temo che non basteranno, però se hai fiducia in me cercherò di fare il possibile."
- "Certo che ho fiducia!"
- "Anzi porterò con me anche le castagne, non si sa mai…" e fece un cenno ad una persona che osservava i due a breve distanza. La persona si avvicinò e caricò i due sacchi di castagne su una carriola.
- "Ma…?" disse sorpreso Matteo, "Mi sembra che tu mi stia chiedendo troppo!"
- "Vuoi tornare a casa col documento che ti serve o preferisci tornare a mani vuote."
- "Voglio quel pezzo di carta, però..." Il tizio non gli fece terminare la frase e gli disse: "Devo sbrigarmi perché se perdo il mio appuntamento puoi buttare veramente tutto a mare, e stai certo che nessuno si getterà in acqua a raccogliere queste cianfrusaglie. Anzi…", disse rivolgendosi all’uomo con la carriola. "sarà bene prendere anche le ceste, le gerle ed i rastrelli, qualora i soldi e le castagne non bastassero."
- "No! E’ troppo!" gridò Matteo.
- "Lo vuoi il documento?" gridò il tizio.
- "Allora vengo con voi", disse Matteo.
- "Non è possibile. Attendi su questa piazza; torneremo fra breve." Matteo si mise a seguire i due quando fu fermato da un grido di Olga:
- "Babbo! Babbo! I Turchi!"
- "Ma quali Turchi?"
- "Là, sul mare!"
- "Non bastavano quei due, ora ti ci metti pure tu con le tue fantasie! "
- "Guarda quelle navi. Mi hanno raccontato che quando i turchi invasero le nostre terre si videro molte navi sul mare."
- "Santo cielo!" esclamò Matteo esterrefatto. "Quante navi! E sono veramente enormi. Quelle sono le navi di Venezia. Osserva le bandiere che sventolano sugli alberi. Pure quelle che videro dalle nostre montagne, ai tempi delle invasioni dei Turchi, erano navi di Venezia. In quel momento rappresentavano la sua potenza, ma anche il suo nervosismo. I Turchi erano peggio della peste e Venezia si affrettava a trasportare sull’altra costa dell’Adriatico uomini ed armi per tenerli a bada. Ma…! Dove sono spariti quei signori. Se la sono squagliata con il mio denaro e la mia roba. Olga, sapevo che non dovevo portarti con me, adesso non posso neppure inseguirli.
- "Attendiamo su questa piazza, ritorneranno tra breve, l’hanno promesso!"
- "Certo, certo, ritorneranno…", disse Matteo masticando quelle parole tra i denti. Non voleva fare capire a Olga quanto era stato incauto. Mentre Olga continuava ad osservare le bellezze di quella città Matteo camminava nervosamente lungo quella piazza.
- "Babbo! Babbo! Sono tornati!"
- "Chi? I Turchi?"
- "Ma no! Quei signori!"
Povero Matteo, era veramente frastornato! Corse incontro al tizio che stava sbucando da un vicolo, e questi, raggiante, sbandierava una pergamena proferendo incomprensibili parole in latino. Avvicinatosi, Matteo quasi strappò la pergamena di mano al signore, osservò attentamente che vi fosse apposto il sigillo di Venezia, e poi iniziò a saltare di gioia. Prese in mano il suo berretto e lo lanciò in aria festante. Il berretto cadde sull’acqua del mare e rimase lì, a galleggiare tra i galeoni e le galee.
- "Spero che tu non abbia nascosto in quel berretto del denaro." gli disse il tizio. "Purtroppo non è bastata tutta la tua roba per ottenere quella carta."
- "Non ho più nulla!" disse Matteo, "Nulla! Neppure i soldi da dare al barcaiolo per il ritorno"
- "Per quello non c’è problema", disse il tizio, "ci sono i ponti che ti condurranno fino alla terra ferma, però io vorrei essere saldato."
- "I patti erano che ciò che ti ho dato sarebbe stato sufficiente, ed io non possiedo veramente più nulla." Alla fine il tizio gli credette e non insistette più.
- "Ma cosa c’è scritto qui sopra?" chiese Matteo osservando la pergamena appena ricevuta.
- "Quello che mi hai richiesto", rispose il tizio iniziando a leggere a voce alta in latino. Matteo, colto da mille dubbi, lo incalzava con le sue domande:
- "Ma la firma sul sigillo è quella del doge?"
- "Naturalmente! Adesso devo lasciarti perché mi attendono altri impegni urgenti."
Matteo osservò ancora un attimo quella pergamena, la avvolse con cura, ringraziò quel tizio e disse a Olga:
- "E’ ora di lasciare questa città! Si fa ritorno a casa!"
I due presero la strada del ritorno, l’uno, felice per quello che aveva ottenuto, l’altra, triste perché avrebbe voluto fermarsi ancora ad ammirare le bellezze di quella città. Dopo aver attraversato innumerevoli ponti e stradine giunsero finalmente al luogo dove avevano lasciato il loro cavallo ed il carretto. Matteo, senza più denaro, dovette foraggiare e abbeverare tutti i cavalli che si trovavano in custodia in quella stalla per saldare il suo debito con lo stalliere. Quando finalmente riuscì a ripartire, il sole che stava volgendo al tramonto dipingeva le acque del mare di rosso, regalando ai due, come saluto, un’ultima splendida immagine di Venezia. "Viaggeremo anche di notte", disse Matteo alla figlia, "ora che conosco la strada sarà più facile il ritorno verso casa." Lasciata la città il primo pensiero di Matteo fu per la sua bimba. Spezzò delle fronde da alcuni arbusti e le mise nella grande cesta, ormai priva di fieno, fissata sul carretto.
- "Adesso potrai dormire sul morbido, mentre io guiderò il carretto", disse Matteo alla figlia. "Cerca di addormentarti, così non sentirai la fame."
- "Che cosa racconteremo alla mamma?"
- "Le racconteremo che sono riuscito ad avere quello che ci spettava. Sarà fiera di me!"
- "No! Le racconteremo che abbiamo visto il mare, le navi, tanti ponti e palazzi, quel campanile altissimo…"
Olga continuava a parlare con il babbo e pure lui parlava, pur non proferendo parole, preparando le cose che avrebbe raccontato al suo ritorno al paese: il suo incontro con il Doge, l’esposizione delle sue ragioni, il pranzo a corte con i più alti esponenti della Repubblica Veneta e con delle splendide dame, e magari chissà cos’altro ancora..! Ognuno si addormentò con i suoi pensieri, mentre il cavallo proseguiva lungo la strada del ritorno. Quando Matteo si risvegliò il cielo stava già rendendo un debole chiarore. Il cavallo si era fermato ai bordi della strada e stava brucando l’erba tranquillamente. "Iiiih…" gridò Matteo innervosito colpendo con un bastone la schiena del cavallo. "Chissà quanto tempo siamo rimasti fermi qui? Brutta bestia, corri !", poi si assicurò che la pergamena fosse ancora con lui. Il viaggio proseguì ancora per molto e finalmente Matteo riuscì a scorgere il suo faro: il monte Matajur. Dopo ore di strada attraverso boschi, fiumi e paesi, con lo sguardo costantemente rivolto verso quella vetta, giunsero alla città di Cividale. Sebbene Olga avesse fame e Matteo fosse privo di soldi, questi decise di fermarsi in quella città. Sapeva che lì avrebbe incontrato tanti convalligiani, così avrebbe potuto anticipare quello che era riuscito ad ottenere da Venezia. Così fu! Attorniato da alcuni paesani Matteo sventolava felice quella pergamena della quale nessuno dei presenti riusciva a comprenderne il contenuto, ma il sigillo in ceralacca, con sopra stampigliato il leone di San Marco, era sufficiente garanzia per tutti. Mentre nella città gli amici lo festeggiavano, riempiendogli bicchieri di vino, qualcuno si affrettava a portare nelle valli la notizia del suo ritorno. Nel frattempo Olga dovette faticare sette camicie per sottrarre il babbo da quella compagnia e riportarlo sulla strada verso casa. Pure lei era desiderosa di raccontare alla sua mamma l'esperienza di quel viaggio. Quel desiderio era talmente grande che appena vide in lontananza il suo paese scese dal carretto e si mise a correre verso casa, attraverso i campi di granoturco ed i filari di vigne, saltando i fossati e piegandosi sotto i legni dei recinti. Alla fine si unì alla madre in un caldo abbraccio ed iniziò, piena di gioia, il suo lungo racconto. La madre la ascoltava con gli occhi rivolti alla strada. Attendeva l’arrivo del marito. Era stata molto in pensiero quei giorni. Il paesino era piccolo e le valli strette; qualcuno le aveva fatto capire che Matteo, in quel viaggio, avrebbe corso dei seri pericoli, ma ora, finalmente era ritornato a casa. Scorgeva in lontananza il cavallo che trainava lentamente il piccolo carrettino. Giunto in paese il cavallo si fermò nel centro della piazza quasi non sapesse dove proseguire. La donna, non vedendo il marito nei pressi del carretto, corse allarmata verso di esso. Nella grande cesta di vimini, una giacca intrisa di sangue rilasciava lentamente a terra delle gocce che coloravano la polvere bianca che ricopriva la strada. Sorretta dai paesani accorsi alle sue grida, iniziò a seguire quella lugubre scia. Non molto lontano giaceva a terra, senza vita, il corpo del marito. Della pergamena attestante i diritti di quel paese sulla chiesetta di San Silvestro, nessuna traccia.
- "Maledetto castagno, ti avevo chiesto di aiutarmi a salvare il mio babbo!" urlò Olga in lacrime.
- "Purtroppo, per lui non c’era nulla da fare. La storia era già scritta. Ma tu sei riuscita ad allungargli la vita, a farlo morire felice dopo che aveva ottenuto quello in cui aveva creduto."
- "Ma morì veramente felice? Non è il dono della vita la più grande gioia su questa terra?"
- "Naturalmente, ma la vita è fatta anche di ideali, e il tuo babbo è morto per portare a termine qualcosa in cui credeva. Senza ideali anche voi, esseri umani, sareste come noi, dei semplici vegetali."
- "Però voi non fate guerre, non rubate, non odiate; dopo quello che ho visto vorrei anch'io essere un castagno. Se vuoi raccontare nuovamente all'uomo la sua storia significa che tu hai compreso ciò che l'uomo non riesce ancora a capire; e poi, dimmi? Salvò queste valli il sacrificio del mio babbo?"
- "Le valli non persero la loro autonomia in quel frangente, perché Venezia non venne mai a conoscenza di questi fatti."
- "Tu menti! Il mio babbo tornò da Venezia con una sentenza firmata dal Doge. Io stessa l’ ho vista."
- "No! Ti ripeto, nessuno a Venezia venne a conoscenza di questi fatti… a parte quel tizio, che era un gran furbacchione, così le valli furono salve."
- "Vorresti dire che quel tizio raggirò il mio babbo? Che gli consegnò un documento fasullo?"
Il castagno non rispose.
- "Parla! Maledetto castagno", urlava Olga, "Dimmi la verità! Dopo tutto quello che mi hai fatto vedere nulla più può impressionarmi. Sono diventata forte, dimentica i tuoi silenzi!"
- "Ti chiedo scusa", disse il castagno, "ma la storia é questa. Non essere triste. Se mi sarà possibile cercherò di farti vedere qualcosa di bello." …
6 Ottobre 1943
-
"Buongiorno bimba, sei sveglia già di buon mattino, come mai?"
–
"Beh…veramente, io sono qui… è stato il castagno..! Comunque,
buongiorno signore!"
-
"Come ti chiami?", le chiese l'uomo.
-
"Il mio nome è Olga", rispose la bimba.
-
"Olga...Olga...eppure il tuo viso mi ricorda qualcuno. Abiti in un paese
qui vicino?"
-
"Credo di essere nel mio paese", disse Olga un po' confusa.
-
"Nel tuo paese? Io conosco tutti qui! Di chi sei figlia?" chiese
l'uomo incuriosito.
-
"La mia mamma si chiama Maria"
-
"Maria...Maria...", ripeté l'uomo togliendosi il berretto ed
iniziando a grattarsi la testa, "qui non c'é nessuna Maria, all' infuori
della mia figlioletta. E' per questo che le abbiamo dato quel nome. Ma tu,
stai bene, hai mangiato? Non mi sembri una cosacca smarrita dai suoi genitori.
Forse hai solo fame. Prosegui fino alla casa posta sulla sommità del paese e
chiedi del latte. Oggi ci é nato un vitellino e il latte non manca. Dopo che
avrai bevuto ti ritornerà anche la memoria. Arrivederci bimba! Proseguo
altrimenti questo letame ti lascerà addosso tutta la sua puzza." Quel
signore si era svegliato come al solito di buon mattino e, dopo aver ripulito
la stalla, portava la carriola colma di letame in un campetto situato in una
località chiamata "Puoje". Il campetto era seminato a granoturco e
le pannocchie erano ormai vicine alla maturazione, nonostante quello fosse
stato un anno "particolare". Scaricò il letame ai bordi del campo,
per non rovinare il raccolto, e ne fece un mucchio a forma di piramide
allungata modellandolo con la forca. Alla fine lo ricoprì con un leggero
strato di terra, così avrebbe conservato intatte le sue proprietà fino alla
primavera dell’anno seguente, quando, interrato definitivamente, sarebbe
diventato prezioso alimento per le future sementi.
Anche Guido si era svegliato di buon mattino e si era recato in un luogo che
si chiamava "Pod Briah", abbastanza vicino al "Puoje".
Quello era un luogo di passaggio di lucherini e montani, e per quel tipo di
caccia stava iniziando la stagione propizia.
–
"Buongiorno", disse Guido incontrando Olga per strada. Quel
buongiorno fu accompagnato da una serie di fischi e versi di uccelli. Olga
ricambiò quel saluto con un sorriso, osservando stupita le gabbiette che
Giudo teneva nella mano. Non riusciva a comprendere chi avesse emesso quei
versi. Guido era fatto così, allegro, sorridente, sempre pronto a scherzare,
ed il fischio era la sua seconda lingua. Avrebbe potuto fare a meno del
lucherino da richiamo in quanto era capace di imitare alla perfezione ogni
genere di uccello. Quel giorno avrebbe conosciuto un nuovo fischio, che non
sarebbe stato sinonimo di allegria, bensì di morte e distruzione. Piazzò in
mezzo al prato le gabbiette con dentro i lucherini da richiamo, e fissò
attorno le "bisčade" e dei "spargoni". Le
"bisčade" e gli "spagoni", come vengono chiamate qui
nelle valli, sono delle piccole bacchette di legno sottile, sulle quali si
spalma del vischio. Gli uccelli che vi si posano sopra rimangono attaccati al
vischio e vengono così catturati. Dopo gli ultimi ritocchi alle gabbiette,
astutamente mascherate con dei rami di salice, Guido si era appostato dietro
una siepe. I primi raggi di sole di quella giornata autunnale davano un calore
piacevole. Guido si tolse la giacca e si distese su di essa nell’ attesa
dell’ arrivo di qualche stormo di uccelli. Rosina, invece, fu l’ ultima a
svegliarsi nel paese, e dopo aver fatto colazione, si affacciò alla finestra
per salutare "Marco". La casa di Rosina era grande, forse la più
grande del paese, perché la sua era una famiglia benestante. Quella famiglia
poteva disporre di una stalla e di un fienile separati dall’ abitazione
principale, ed ancora di un' altra abitazione nella quale vivevano i mezzadri.
I tre edifici erano disposti a semicerchio formando sul loro fronte un grande
cortile, nel quale, in mezzo ai carri ed agli attrezzi agricoli, c’era ogni
genere di animale: galline, oche, tacchini, conigli, pecore, maiali, cani e
gatti. Un vero spettacolo per i tempi che correvano! Rosina quel giorno non
riuscì ad intravedere, fra quella moltitudine di animali, i riccioli dorati
di Marco. Rosina amava Marco, perché era dolce, bellissimo, ma nello stesso
tempo ribelle ed indipendente. Fra tutti gli animali di quel cortile, solo
quell’ agnellino portava il nome di un uomo, e solo per lui Rosina perdeva
ore a cercarlo quando fuggiva da quell’aia. Rosina sapeva dove avrebbe
trovato Marco, e decise di andarlo a cercare. Lungo il percorso incontrò
Olga, e decisero di proseguire il cammino assieme. Il paesino stava pian piano
prendendo vita, la solita vita quotidiana, ma ogni paesano avrebbe ricordato
per sempre quella giornata ed ognuno avrebbe avuto una sua storia da
raccontare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quello che stava per
iniziare sarebbe stato una dei giorni più terribili vissuti dagli abitanti
del paese di Merso di Sotto. Questo paesino si trova nelle Valli del Natisone,
all’ inizio di una piccola catena collinosa che sale progressivamente e si
protende verso nord-est, per terminare con la cima del monte San
Martino, ai confini con la Slovenia. La collina immediatamente sovrastante il
paese si chiama monte "Vainiza", ora completamente ricoperta da
boschi, ma in quel tempo era un enorme prato. Mentre il nonno stava modellando
le sue piramidi di letame, notò in lontananza dei movimenti di soldati, cosa
consueta in un periodo di guerra. Quello che non poteva immaginare era ciò
che stava accadendo in quel momento a sua moglie Luigia, la quale era alle
prese con un soldato tedesco che pretendeva da lei una gallina. Luigia, sotto
la minaccia delle armi, ne afferrò una, e da brava donna di casa quale era,
cercò fra tutte la peggiore, quella che non faceva né uova né metteva su
carne. Anche il tedesco sembrava conoscere quella che avrebbe fatto migliore
figura in padella, così pretese il cambio indicando con la canna del mitra la
prescelta. Luigia non stette a discutere e rincorse la gallina per il cortile
fino a quando la catturò. La consegnò al soldato il quale la afferrò con
una mano, avendo l’altra impegnata a brandire la sua arma. La gallina
sbatteva le ali e strepitava, così il tedesco, per togliersi quel fastidio,
prese il pugnale e le tagliò la gola. Verso le dieci del mattino iniziò una
violenta sparatoria con colpi di fucile e di mitragliatrice dalla cima della
"Vainiza" verso il monte "Barca", una piccola collinetta
situata proprio di fronte al paese. Le pallottole iniziarono a fischiare sopra
la testa di Guido e lo svegliarono bruscamente. Si alzò di scatto e corse a
raccogliere tutta la sua attrezzatura. Staccò gli uccelli appiccicati al
vischio delle "bisčiade" e, con un gesto che ormai eseguiva con
automatismo, premette il loro capo tra il pollice e l’ indice delle sue
forti dita, attendendo solamente un "cric" per depositare nelle
ampie tasche della sua giacca quello che sarebbe stato il pasto di quella
giornata. Anche il marito di Luigia, nel "Puoje", vide cadere alcune
mele dagli alberi, seppure non fosse ancora giunto il periodo della
maturazione. Quando alle sue orecchie pervennero gli spari, capì subito che
quello non era stato un distacco naturale. Abbandonò le forche e la carriola
e fece un rapido ritorno a casa, riparandosi tra le canne di granoturco ed i
filari di viti. Rosina, uditi i primi spari, fu colta da paura e corse
immediatamente verso casa, scordandosi di Marco e di Olga. Rosina non dovette
correre molto perché la sua casa era vicina. Olga, incoscientemente, si
attardò perché sperava di trovare in breve tempo "Marco". Le
truppe partigiane, provenienti dalla "Vainiza", sparavano sui
soldati tedeschi che si trovavano a fondo valle e all’ interno dell’
abitato di Merso di Sotto. Si avvicinarono al paese scendendo dalla montagna e
presero posizione ad un centinaio di metri dalle case. Ora gli avversari erano
estremamente vicini ed i combattimenti si facevano più violenti. Si combatté
per ore, di orto in orto, di casa in casa. I paesani terrorizzati si erano
rifugiati nelle cantine, mentre le pallottole penetravano all’ interno delle
abitazioni, fracassando porte e finestre. Luigia, al riparo in una stanzetta,
osservava attraverso una finestrella ciò che succedeva all’esterno. Proprio
sotto i suoi occhi venne colpito a morte un soldato tedesco. I
partigiani, alcuni dei quali scalzi, accorsero cercando di togliergli gli
stivali e quanto di usabile avesse addosso. Il soldato era di piccola statura
e quegli stivali non andarono bene a nessuno. Luigia lo riconobbe perché
accanto al suo corpo c’era un altro cadavere: quello di una gallina! Altri
due soldati tedeschi giacevano feriti nella cantina di un’ abitazione posta
al centro del paese, a qualche decina di metri dal tedesco caduto. Giacevano
in una pozza di sangue, nonostante alcuni paesani cercassero di fermare le
emorragie provocate dai proiettili. Olga inavvertitamente si trovò al centro
dei combattimenti. Le pallottole che volavano sopra la sua testa spezzavano i
rami degli alberi e si frantumavano sibilando nei numerosi muretti che in
quella zona delimitavano le piccole proprietà. Istintivamente si gettò a
terra nel primo riparo disponibile: una buca coperta di rovi e di arbusti
spinosi. Tanta fu la paura che ebbe in quel momento che non sentì il dolore
delle spine che penetravano nella sua carne. Restò a lungo immobile mentre
attorno a lei partigiani e tedeschi si combattevano. I partigiani costrinsero
il nemico ad una ritirata. Quella fu la prima volta che le truppe tedesche
dovettero ritirarsi dalle valli per opera di combattenti del luogo. Dopo la
vittoria festeggiarono con canti e vino. Quei partigiani parlavano tutti lo
sloveno, allora la principale, e per molti, l’unica, lingua delle valli.
Volevano liberare quelle terre dalla dittatura e unire tutti coloro che
parlavano quella lingua. Nonostante la battaglia non fosse ancora terminata,
Olga uscì da quel nascondiglio per cercare un riparo più sicuro,
sgattaiolando tra i muretti degli orticelli e gli avvallamenti del terreno.
Scendendo dalla montagna, giunse alla sommità del paese. La prima casa che
raggiunse fu quella di Luigia. Ora si sentiva finalmente tranquilla. Da quel
punto si dominava la via principale del paese e la sua piccola piazzetta. Olga
osservava attorno a sé, cercando qualcuno a cui unirsi per trovare rifugio,
ma gli unici uomini che vide furono due soldati. Uno, un partigiano, ubriaco,
percorreva la strada principale del paese cantando e mangiando una mela. L’altro,
un soldato tedesco, bene appostato e a breve distanza dal partigiano, stava
prendendo la mira col suo fucile. Olga coprì gli occhi con le mani per non
vedere quella uccisione. Luigia comprese che Olga stava correndo un grosso
pericolo, aprì la porta della sua casa e la afferrò tirandola all’
interno:
–
"Bimba, di fuori c’è la guerra, vuoi farti ammazzare come quel
partigiano?" le disse. Poi seguì un lungo ed angoscioso silenzio nell’
attesa di uno sparo che fortunatamente non si udì. Il tedesco ebbe paura che,
sparando, sarebbe stato scoperto, così preferì desistere dal suo intento e
fuggire in silenzio. I due soldati che giacevano feriti nella cantina, vennero
prelevati dai partigiani e portati in un campo chiamato "Zara", a
pochi metri dal paese. Uno dei due implorava che gli risparmiassero la vita
perché aveva a casa moglie e figli. Parlava una lingua slava, simile a quella
dei partigiani, poiché lo comprendevano. Forse proveniva da qualche paese
dell’est, rastrellato dai tedeschi e passato per le armi. Forse partecipava
anche lui a quella maledetta guerra senza saperne il perché, chiamato a
combattere per difendere una terra non sua, come accadeva ai nostri valligiani
che stavano morendo nella gelida Siberia. La pazzia di pochi aveva trascinato
il mondo in una spirale di odio che chiedeva solo sangue. I due feriti vennero
uccisi a pugnalate! Altri tre soldati tedeschi giacevano privi di vita sul
bordo della strada che dal paese di Merso di Sotto conduce ad Azzida. Prima di
abbandonare il paese, i partigiani, si recarono nel cortile di Rosina, dove c’erano
diversi carri. Ne chiesero uno, sul quale caricarono il corpo di un loro
compagno caduto per riportarlo al suo paese. Forse quella perdita aveva
aumentato l’odio verso il nemico. Ai paesani ora non restava che l’ attesa
della rappresaglia tedesca, e non ci volle molto! Dalla frazione di Azzida
iniziò un cannoneggiamento verso il paese nel quale si trovavano solo gli
abitanti civili. Una stalla colpita prese fuoco e la gente, mettendo a
repentaglio le proprie vite, si prodigò per salvare gli animali. In quei
momenti di miseria, non c’era grande differenza tra la vita di un uomo e
quella di una mucca. Nel tardo pomeriggio le truppe tedesche entrarono in
paese. Tutte le case furono perquisite e gli abitanti fatti confluire in un
campo vicino al paese. Anche Guido, assieme al padre ottantenne, venne tirato
a calci fuori dalla sua camera, dove si era nascosto. Davanti a tutti c’ era
una mitragliatrice pronta a vendicare i tedeschi uccisi. Luigia depose a terra
la figlioletta, allora di appena sei mesi, confidando nell’ umanità del
mitragliere. Olga si stringeva a Rosina, che aveva appena conosciuto. In quei
momenti disperati molti avevano lo sguardo rivolto verso l’ antistante
santuario della Madonna di Castelmonte. La suocera di Luigia, che aveva
lavorato a lungo in Germania, provò a dire qualcosa in tedesco ai soldati,
poi iniziò a parlare una donna anziana, poi Pietro, sua moglie, ed altri
ancora. La miseria aveva spinto molti abitanti di quel povero paesino ad
emigrare verso la Germania ed avevano imparato la lingua di quel paese. Alla
fine fu quasi un dialogare tra tedeschi e tedeschi. Le preghiere di coloro che
si erano rivolti alla Madonna furono esaudite. Le donne ed i bambini furono
liberati e poterono fare ritorno alle loro case, mentre tutti gli uomini,
vecchi compresi, furono condotti in prigione a Cividale. Nessuno perse la
vita. I vecchi vennero rilasciati dopo qualche giorno di completo digiuno.
Quelli abili a combattere dovettero scegliere tra il campo di concentramento o
l’ arruolamento nelle file dell’esercito nazista. Coloro che si
arruolarono ricevettero una divisa verde ed un berretto nero, simili a quelli
usati dai ferrovieri; sulla divisa portavano, cucita attorno alla manica, una
fascia bianca con sopra ricamata una svastica, simbolo della Germania nazista.
Terminata la guerra, tutti si ritrovarono, e decisero che avrebbero ricordato
per sempre quel giorno, 6 ottobre 1943, celebrando ogni anno, per quella
ricorrenza una Santa Messa.
–
"Questo lo ricordo benissimo, disse Olga"
–
"Certo, te l’ ho appena raccontato", rispose il castagno,
"perché tu non eri ancora nata".
–
"No! Questo fatto me lo ha narrato molte volte la mamma. Quella bimba in
fasce era lei. Sai, sono contenta che stavolta sia stata proprio lei a
narrarmelo. Con tutti i guai che le ho procurato in passato! Ma tu, ancora una
volta mi hai fatto vedere solo crudeltà!"
–
"Ti chiedo scusa, ma per farti vedere qualcosa di bello ho dovuto
portarti in quel periodo. Quel signore con la carriola che ti ha parlato, e
che tu non avevi mai visto prima d’ora, era il babbo di quella bimba in
fasce di fronte al plotone d’esecuzione."
–
"Mio nonno? E poi mia nonna, mi ha salvato la vita! E la bisnonna che ha
parlato con i tedeschi! Ora ricordo le foto
dei nonni che la mamma tiene sul comodino. Quei volti mi sembravano
famigliari, e pure io sentivo qualcosa dentro di me mentre gli parlavo. Ma
come ho fatto a non accorgermene! Grazie castagno, questo é proprio un bel
giorno! Sai, i genitori di mia
mamma mi hanno lasciata che io ero ancora in fasce. Qualcuno in paese ha detto
che morirono di crepacuore, ma non ho mai capito il perché. E’ per questo
che mia mamma ha sofferto?"
–
"Anche per questo," rispose il castagno.
–
"E per cos’ altro ancora?" Il castagno non rispose.
–
" Sarà meglio che d’ora in poi mi faccia raccontare la storia da mia
mamma, questi fatti lei li ha vissuti ed ha molta più memoria di
te." disse Olga allontanandosi.
–
"Torna a trovami!" supplicò il castagno, "Ho ancora molte cose
da raccontarti".
– "Ne sei certo?"
–
"Certamente, rispose il castagno".
– "Risponderai a tutte le mie domande?" Il castagno capì, e non rispose. Olga lo salutò con un freddo:"A domani!" Quella che stava manifestando in quel momento verso il castagno era una finta rabbia; quella vera era verso lei stessa, per non aver saputo riconoscere i propri nonni. Avrebbe potuto abbracciarli, avrebbe voluto fare a loro tante domande…
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L’ indomani Olga si recò nuovamente nel bosco. Ormai aveva imparato a
distinguere in lontananza la voce del castagno. Quel giorno, quella che udiva
non era la solita voce, forte e sicura , ma tremolante e piena di agitazione.
Olga pensò che questo fosse dovuto all’ansia dell’albero per le domande
che gli avrebbe fatto fra poco. Affrettò il passo, e lungo il percorso notò
degli strani segni su alcuni alberi. Dopo un poco udì un rumore forte ed
inconsueto per quel luogo. Stormi di uccelli si alzavano, nei pressi del
castagno, e fuggivano in tutte le direzioni. Lepri e caprioli, lasciavano il
bosco spaventati da quel frastuono che non cessava. Anche Olga si allarmò, e
rallentò il suo passo, spiando da dietro i cespugli ogni tratto di sentiero
che doveva percorrere. Più si avvicinava al castagno, più quel rumore si
faceva intenso, assordante. Quando il rumore divenne impossibile da
sopportare, Olga vide un gruppetto di uomini che lavoravano con uno strano
aggeggio. Era proprio quell’apparato infernale, che Olga non aveva mai visto
in vita sua, che generava quel frastuono incredibile: una specie di sega
azionata da un motore, la cui lama era molto più piccola di quelle usate fino
allora dai valligiani, ma tremendamente più potente ed instancabile. A quella
visione Olga fu presa da un temendo presentimento. Si mise a correre verso il
castagno e già in lontananza i suoi occhi videro ciò che non avrebbero mai
voluto vedere. Si avvicinò ancora verso l’ albero, quasi volesse toccare
con mano l’amara verità. Ora scorgeva distintamente sulla sua corteccia
quel segno a forma di croce che significava l’ abbattimento. Olga tentò di
parlare al castagno, di confortarlo, ma il frastuono del motore impediva ogni
dialogo. Povero castagno! Sapeva che prima o poi avrebbe trovato la morte.
Fino ad ora, nella storia, non aveva corso grossi pericoli, ma le armi che gli
uomini costruivano diventavano sempre più potenti e costituivano una minaccia
anche per lui. Era così che aveva immaginato la sua fine, ferito mortalmente
in una delle prossime guerre. Non avrebbe mai immaginato di perire in tempo di
pace.
–
"Ti salverò" , gli disse Olga accarezzandolo, "te lo
prometto!" Corse velocemente verso il gruppo di persone che stavano
lavorando con quell’ aggeggio infernale. Chiese ad uno di essi:
–
" Perché abbattete tutti questi alberi?" – L’uomo avvicinò l
‘orecchio alla bocca della bimba, la quale ripeté la domanda, e le disse:
–
"Qui passerà una grande linea elettrica, dobbiamo costruire dei
tralicci."
–
" Ma non si può deviare il percorso?"
–
"Perché mai? Vorresti forse che
proseguissimo a zig-zag? No, é impossibile".
–
Olga gli parlò del castagno, a lungo e con insistenza, ma l’ operaio aveva
altro da fare. Alla fine, spazientito, le disse:
–
" Quel signore laggiù è l’ingegnere, colui che ha progettato la
linea, parla con lui." Olga si
recò prontamente dall’ ingegnere, assorto a controllare delle mappe.
–
"Buon giorno signor ingegnere"
–
"Buon giorno bimba. E’ pericoloso
aggirarsi in questi paraggi. E’ meglio che tu torni a casa."
–
" Signor ingegnere", disse Olga ansimante, "non dovete
abbattere il castagno."
–
"Quale castagno?" domandò incuriosito l’ingegnere.
–
" Quello grande, ai margini del prato."
–
"Ah, quello! Hai proprio ragione. E un lavoro pericoloso, da fare con
molta attenzione."
–
"Volevo dire che proprio non lo dovete abbattere. Quel castagno é
mio!" disse Olga con tono deciso.
–
"Non preoccuparti, verrai risarcita, e bene, anche perché é un albero
enorme. Attendi un attimo." L’ingegnere iniziò a rovistare in una
borsa ricolma di carte. Alla fine, dopo una laboriosa ricerca, si rivolse ad Olga sorridente:
–
" Tieni questo modulo, fallo firmare al tuo babbo, e domani me lo farai
riavere: è la richiesta di indennizzo."
–
"Ma io… il mio babbo non vuole soldi, ha bisogno delle castagne. Quell’albero
non è in vendita!" disse Olga con tono perentorio.
–
"Non abbiamo bisogno di comperare l’albero", disse l’ ingegnere,
"però dobbiamo fare la linea elettrica."
–
" Ingegnere, venga con me un attimo, la supplico!" La bimba lo condusse
ai piedi del castagno e disse:
–
"Questo é un castagno parlante, conosce tutta la storia, meglio della
mia maestra. Ascolti!"
–
"Ma io non sento nulla ", disse sorridendo l’ ingegnere.
–
"Si tolga il casco." insistette Olga. L’ ingegnere che cominciava a non
capire bene con chi avesse a che fare, si tolse il casco e, con fare
scherzoso, portò una mano all’orecchio; poi, scosse la testa e disse:
–
"Nulla, non odo proprio nulla!"
–
" Faccia fermare quella sega e sentirà anche lei le sue parole."
–
" Non é possibile fermare gli operai. Siamo molto in ritardo con i
lavori. Ho capito…! Sei molto ghiotta di castagne al forno e ti
dispiacerebbe doverne fare a meno. In confidenza, anche a me dispiace per
questo albero, le castagne piacciono pure a me, ma con i soldi che riceverai
per l’indennizzo potrai comperarle già cotte."
–
"Ma, e la guardia forestale? Mi hanno insegnato che la guardia forestale
protegge gli alberi. Questo è un esemplare unico".
–
"Questo è vero, è un bell’ albero, ma vedi, le carte che sono in
questa valigia dicono che è tutto in regola. Qui sopra ", disse l’
ingegnere estraendo dal borsone un foglio, "è decretata la sua morte,
nel rispetto della legge!" Olga rabbrividì nell’udire quelle parole
che l’ingegnere invece proferì per rassicurarla, ma i due parlavano lingue
diverse. Era disperata più che mai, ma non si rassegnava all’ idea che il
castagno venisse abbattuto. Aveva ancora una possibilità, ma doveva agire in
fretta: quella sega funzionava tremendamente bene. Decise di passare subito
all’azione, anche usando dei mezzi non leali, del resto nella storia aveva
visto tante nefandezze, per cui una fatta a fin di bene poteva essere
perdonata. Si avvicinò vicino al grande bidone che conteneva il combustibile
per la sega. Svitò leggermente il tappo e con tutta la sua forza lo inclinò
finché lentamente il combustibile iniziò ad uscire. Quando il bidone si
alleggerì, lo stese orizzontalmente e non si mosse di lì finché non uscì
anche l’ultima goccia di quel liquido. Il bosco profumava di uno strano
odore, ma i fumi che uscivano dal motore della sega avevano reso da tempo l’
aria nauseabonda, per cui nessuno si accorse di nulla. La prima parte del suo
piano era andata magnificamente, ed ora via…! Scese precipitosamente verso
casa e, senza dire nulla a nessuno, inforcò la bicicletta del papà e iniziò
a pedalare verso Cividale. Aveva preso con sé un vecchio zaino militare nel
quale aveva gettato frettolosamente del pane, formaggio e alcune mele. Quello sarebbe stato il suo
pranzo! La partenza fu goffa e traballante in quanto
Olga aveva usato quella bicicletta pochissime volte e portava ancora sui
ginocchi i ricordi di certe cadute; però aveva imparato almeno a stare in
equilibrio. La parte iniziale della strada era polverosa e piena di buche che
apparivano improvvisamente di fronte a quelle ruote. Olga stringeva i denti ed
i freni, ma poi riprendeva a pedalare con voga. Quando la strada si fece
asfaltata, Olga aveva già preso la giusta dimestichezza con il suo mezzo di
locomozione. La leggera pendenza del percorso, assieme al vento che soffiava
alle sue spalle, la spingevano velocemente verso quella città dove non si era
mai recata prima di allora. Giunse alle prime case della periferia; continuò
a pedalare cercando un varco in quello che a lei sembrava un labirinto.
Imboccò una stradina stretta e passò tra due case, sotto una volta in
pietra, proprio come quelle illustrate sui suoi libri di scuola. Proseguì
inoltrandosi verso il cuore della città. Sotto i suoi occhi scorrevano
numerose case, poi i palazzi, le chiese, il ponte, le vie piene di negozi.
Olga non si sentiva per nulla a disagio, ed in quel momento si ricordò che in
passato era stata proprio lei a descrivere quella città ad Alboino. Si
fermò, appoggiò la bicicletta al muro di un grande edificio e sostò di
fronte alla sua porta enorme. Qualcosa le diceva che quello era il posto dove
doveva entrare. Iniziò ad osservare l’interno. Vedeva appoggiati su dei
banconi elmi, spade, scudi e tanti altri oggetti ancora. Ai muri di
quelle stanze erano appesi enormi quadri con sopra dipinte scene di guerra,
orde di barbari che invadevano i nostri paesi, poi altre rappresentazioni di
condottieri, proprio come lei li aveva visti. Olga, affascinata, entrò in
quell’ edificio ed iniziò a girovagare per quelle enormi stanze. Stava
rivedendo tutto ciò che il castagno le aveva narrato. Ad un tratto una voce
alle sue spalle interruppe quel momento d’ incanto e la riportò alla
realtà:
–
"Bimba hai pagato il biglietto?"
–
"Quale biglietto? "
–
"Per accedere al museo bisogna munirsi di biglietto", le disse con
tono altezzoso un signore. Olga lo osservò dalla testa ai piedi. Indossava un
abito scuro, una specie di divisa, la camicia bianca ed una cravatta blu. Sulle sue scarpe nere, lucidate a nuovo, risplendevano le luci degli
enormi lampadari appesi al soffitto; no, quello non era una guardia forestale.
–
"Sto cercando le guardie forestali", rispose imbarazzata.
–
"Hai cercato bene? Le hai trovate?"
–
"No!", rispose timidamente sentendosi derisa, "Scusate,
buongiorno", e si avviò velocemente verso l’ uscita. Avrebbe
desiderato rimanere ancora in quel posto, rivivere di fronte a quei dipinti e
a tutti quegli oggetti i racconti del castagno, ma le sue tasche erano vuote,
e poi, non era per quello che si era recata in quella città. Inforcò
nuovamente la bicicletta e si mise a girare per tutte le viuzze di Cividale
alla ricerca dell'ufficio delle guardie forestali. Arrivò in una grande
piazza affollata di gente. Scese dalla bicicletta e proseguì a piedi, in
quanto sarebbe stato impossibile anche al ciclista più esperto zigzagare tra
quella moltitudine di persone e oggetti sparsi su quella piazza. Ai bordi
delle strade le donne, con i cesti ricolmi di frutta e ortaggi, fermavano i
passanti invitandoli all'acquisto dei loro prodotti. Più avanti, disposti
ordinatamente in riga, sacchi e cassette attendevano di essere riempiti con i
prodotti che provenivano dalle valli: mele "Seuke" e castagne,
in particolare. Verso il centro, un vero e proprio labirinto di gabbie di ogni
forma e grandezza, sparse disordinatamente, richiamava l' attenzione di
molte persone. Nelle gabbie più piccole, alle quali badavano le donne, erano
rinchiuse galline, oche e conigli; in quelle quelle più grandi, alle quali
badavano gli uomini, erano rinchiusi i maiali. Quel giorno in quella
città si svolgeva il mercato e quella piazza si era trasformata in una vera e
propria babele. La gente parlava italiano, friulano, slavo, e ancora un non
ben definibile dialetto, misto tra il veneto, il goriziano ed il triestino. Le
voci delle persone si incrociavano e si confondevano; ognuno cercava di farsi
sentire gridando più forte dell' altro. Alle grida della gente si sommavano i
versi degli animali, primi sopra tutti quelli dei maiali, portati lì per la
vendita. Per questi ultimi, dopo che tra le parti era stato convenuto il
prezzo, era necessaria la pesatura. Per fare ciò si legavano le zampe
anteriori e posteriori del maiale con una corda, e, per mezzo di questa,
l'animale veniva appeso alla bilancia, una grande stadera sostenuta da un
robusto legno appoggiato orizzontalmente sulle spalle di due uomini. Anche i
conigli venivano pesati, ma su una normale stadera; venivano afferrati per le
orecchie, estratti dalle gabbie e depositati sul piatto della bilancia. Le
galline venivano afferrate per le ali e subivano per la pesatura lo stesso
trattamento del maiale, naturalmente sulla stadera piccola. Tutti questi
animali manifestavano chiaramente e a voce alta il loro disappunto per quel
trattamento. Quel giorno molti valligiani erano scesi in città per
vendere i propri prodotti al mercato, e dalle borse appese ai manubri delle
loro biciclette sbucavano teste di conigli e di galline; le borse dalle quali
non sbucava nulla erano generalmente piene di uova, adagiate su strati di
fieno o avvolte con cura in carta di giornale appositamente arruffata. Altri
portavano appoggiati sul manubrio o sul telaio della bicicletta pesanti sacchi
pieni di castagne. Alcuni di essi avevano percorso a piedi parecchi chilometri
di strada per arrivare con quella merce dal proprio paese in quella piazza.
Una volta giunte al mercato, queste persone venivano adocchiate dai vari
commercianti e trascinate in disparte, nei pressi delle proprie gabbie, dove
le loro sporte venivano perquisite senza alcun ritegno. Ognuno cercava di
accaparrarsi con le proprie offerte la merce, prima che qualcun altro lo
precedesse. Le donne acquistavano uova, pollame e conigli; gli uomini
castagne, mele e legname; altri vendevano maiali da allevare. Olga,
frastornata in quella bolgia, volle uscire, ma non sapeva dove dirigersi e
veniva spintonata in continuazione. Adocchiò una vecchietta arzilla con una
sporta piena di uova e cercò di seguirla. La vecchietta si muoveva con
discrezione e proteggeva il suo prezioso carico facendosi largo con i gomiti
fra la folla. Olga iniziò a seguirla restando incollata ad essa; ad un tratto
si sentì trattenere per le spalle, ed una voce di donna le disse:
–
" Apri quello zaino! Se le tue castagne sono grosse e lucide te le
pago bene."
–
" Questo zaino non contiene castagne, ma solo il mio pranzo.".
–
"Non mentire! Dimmi quanto ti ha promesso qualcun'altro, visto che non ti
degni neppure di fermarti", chiese la signora. "Svuota la zaino in
questa cassetta e ti porti subito a casa i soldini", continuò la donna
esibendo un voluminoso portamonete.
–
"Se mi aiuti a salvare un castagno ti prometto che ti porterò tutte le
sue castagne. E' un albero grandissimo, riceverai molte castagne", disse
Olga alla donna iniziandole a raccontarle quello che stava succedendo al
castagno.
–
"Non comprendo perché ti preoccupi tanto, se ti pagano", rispose la
donna dopo aver riflettuto un attimo. "E' una fortuna! Non sei costretta
a tagliarlo, non devi tirarlo fuori dal bosco, e poi... con tutti i
castagni che avete sulle vostre montagne, uno più, uno meno...Signore!
Signore! Si fermi qui, oggi paghiamo bene! " Olga capì che quella
donna non aveva molto tempo per ascoltarla e che non l'avrebbe
aiutata, e si allontanò. Proseguì, da quel momento, facendosi strada pure
lei con i gomiti. Giunse di fronte ad una gabbia piena di conigli. Si mise ad
osservarli incuriosita in quanto erano di colore diverso da quelli, marroni,
che allevava sua mamma. Non aveva mai visto un coniglio tutto bianco, e
se poi sulla fronte aveva pure una macchia nera non poteva essere che amore a
prima vista. Olga aprì lo sportello superiore della gabbia ed iniziò ad
accarezzargli delicatamente le orecchie...
–
"Ti piace?" le chiese una signora, "Se il tuo zaino è pieno di
castagne possiamo fare cambio. Ti va l'affare?"
–
"Oggi non ho castagne, ma se vuole potrei
portargliene a sacchi. Se solamente riuscissi a salvare il mio castagno. Forse
lei saprebbe darmi un consiglio...senta cosa sta accadendo al mio
albero..."
–
"Mi spiace bimba, ma oggi non ho tempo per ascoltarti, se vuoi quel
coniglio mi devi dare mille lire". Olga si fermò ancora un attimo ad
osservare il coniglio, poi, a malincuore, si allontanò dalla gabbietta. Si
fermò di fronte ad una bancarella colma di dolciumi di ogni tipo. Un signore
avvolgeva su dei bastoncini fili di zucchero e continuava fino a che questo
zucchero assumeva la dimensione di un gomitolo di lana. Olga sapeva che
cos'era quel goloso gomitolo, perché l' aveva visto sui libri di scuola, ma non ne
aveva mai assaporato il gusto.
–
"Quanto costa lo zucchero filato?" chiese al venditore.
–
"Cinquanta lire", rispose questi.
–
"E le ciambelle?"
–
"Cinquanta lire pure quelle. Oggi vendiamo tutto a cinquanta lire!"
gridò il venditore rivolto alla folla . Olga mise la mano nella tasca della
sua giacchetta, fingendosi indecisa sull'acquisto, pur sapendo che non
aveva con sé una lira. Abbandonò con tristezza anche quella bancarella. Quei
profumi le avevano risvegliato l'appetito, e se avesse avuto con sé in quel
momento il suo salvadanaio, non avrebbe esitato a svuotarlo. Fino a quel
momento ora non aveva mai avuto bisogno di denaro, ma ora cominciava ad
apprezzarne i vantaggi e a comprenderne il valore. Proseguendo tra le
bancarelle osservava i vari prodotti ed i prezzi sopra esposti.
Immaginando quanti soldi potevano essere nel suo salvadanaio, cercava di
capire se avrebbe potuto acquistare questa o quell'altra cosa. Si fermò
nuovamente di fronte ad una bancarella colma di oggetti luccicanti. Su di un bancone erano esposte collane multicolori ed orecchini apparentemente d'oro.
Al centro, disposti ordinatamente in riga, una serie di astucci aperti
contenevano orologi di ogni tipo. I raggi del sole che colpivano quegli
oggetti si riflettevano sul suo viso Strinse gli occhi e
iniziò ad osservare quegli oggetti uno ad uno. La gente spingeva contro
quella bancarella e tutti volevano toccare con mano la merce. Anche Olga
allungò la mano e prese un orologio per osservarlo da vicino. Era un grosso
orologio da uomo. Lo indossò sopra la manica della giacca. Provò a
girare la piccola rotella che dava la carica all'orologio. La lancetta che
segnava i secondi iniziò a muoversi immediatamente. Allontanò il
braccio da sé, per osservare meglio l' effetto che faceva su di lei
quell'oggetto. Nessuno nella sua classe, all'infuori della maestra, possedeva
un orologio, e molto probabilmente neppure in tutta la scuola c'era chi potesse
vantarsi di averne uno. Ora immaginava il suo ingresso nell’aula con quell'
orologio addosso, o in chiesa, alla lezione di catechismo, o alla domenica
alla messa. Chiese al venditore il prezzo di quell'orologio. Questi le
rispose:"Sono quarantamila lire, bimba, ma è meglio che mandi qui il tuo
babbo".
–
"Possono bastare tutte le castagne di un castagno?"
–
"Temo di no bimba, questi sono tutti prodotti di marca!", rispose il
venditore rivolgendosi alla folla.
–
"E tutta la legna di un grande castagno?" insistette Olga.
–
"Potrebbe bastare; dipende da quanto è grande. Ti ripeto, mandami qui il
tuo babbo, o meglio, se ha legna da vendere mandalo da quel signore grosso in
fondo alla piazza. Quello è un mio amico e acquista legna. Ora allontanati
che ho da fare", rispose il venditore, mentre la
gente continuava a spingere e a rivolgergli domande. Olga, pensierosa,
voltò le spalle alla bancarella ed immediatamente una vecchietta iniziò a
urlare:
–
"L' orologio, le stanno rubando l' orologio! La bimba si porta via l'
orologio!"
–
"Maledetta ladra!" urlò inferocito il commerciante. "Ora
chiamo i carabinieri!" Olga sfilò l'orologio dal polso senza neppure
allentare il cinturino e lo mise sul bancone gridando alla vecchietta:
–
"Non è vero, non volevo rubarlo!" ed
iniziò a piangere. La vecchietta, per nulla impietosita,
continuò:"Lo zaino! Controllate lo zaino! Chissà quanta roba ha ficcato
dentro! Bisogna fare attenzione a questi slavi!" Il commerciante furibondo
le tolse lo zaino dalle spalle urlando:
–
" Dove sono i carabinieri! Qualcuno chiami i carabinieri che sistemiamo
questa ladra." Tutti gli occhi della gente erano addosso ad Olga che, col
volto pieno di lacrime, rosso per la rabbia e per la vergogna,
tremava come una foglia.
–
"Ma qui non c'è niente!" disse il commerciante capovolgendo lo
zaino dal quale uscirono solo poche briciole di pane.
–
"Frughi bene dappertutto", insistette la vecchia "guardi anche
nei tasconi!"
–
"Ma è tutto vuoto!" disse il commerciante che stava iniziando a
capire la realtà.
– "Bisognerebbe perquisire la bimba, per essere certi", insistette la vecchia, "Dov'è la bimba? E' fuggita! Lo dicevo io che aveva la coscienza sporca"
– "Signora, qui non manca nulla", disse il commerciante dando una rapida occhiata al suo tavolino e gettando a terra lo zaino. "Coraggio signori, fate i vostri acquisti! Qui nessuno ruba e nessuno imbroglia", proseguì il commerciante mentre la vecchia continuava a confabulare con la gente. Olga non si era mai trovata in una simile situazione in vita sua e, spaventata, se l'era data a gambe. Appartata in un angolo della piazza, osservava timorosa tra la gente chiunque si dirigesse nella sua direzione indossando una divisa. Purtroppo quella piazza pullulava di divise, principalmente di militari di leva, ma per Olga non c'era grande differenza tra un soldato e un carabiniere. Continuava a piangere per l'ingiusta accusa che le era stata mossa, ma in quel momento provava vergogna per aver ceduto alle lusinghe di quella piazza, ed aver cercato di vendere il castagno. Olga sentiva ciò che le era accaduto come una punizione per il suo comportamento. Adesso non aveva più lo zaino del babbo e le mancava anche il coraggio per recarsi a prendere la sua bicicletta. Un signore, vedendola piangere, le si avvicinò. Olga sobbalzò temendo che volesse consegnarla ai carabinieri. Quest' uomo, vestito in modo transandato, calzava dei grossi scarponi sporchi di terra, proprio come quelli che indossava suo papà quando si recava nel bosco.
– "Bimba, perché piangi?" le chiese.
–
"Perché mi hanno detto che sono un ladra", rispose
singhiozzando Olga.
–
"Aaa... tu sei quella dell' orologio. Sai, ho visto tutto!" Olga
iniziò a tremare ma l'uomo la rincuorò prontamente:" Non temere, tu non
hai fatto nulla. Capita spesso che in questa città qualcuno ci consideri in
questa maniera. Ora vado a riprendere il tuo zaino. Ma dimmi piuttosto, che
cosa fai qui, tutta sola?" Olga iniziò a raccontargli la storia del
castagno ed il motivo per cui era arrivata in quella città.
–
"Sei fortunata!" disse l'uomo, "Pure io devo recarmi dalle
guardie forestali. Se vuoi ti accompagno" . L' uomo andò a
riprendere lo zaino e la bicicletta di Olga e insieme si incamminarono verso
la stazione dalla guardia forestale. Lungo il tragitto Olga spiegò ogni
particolare di ciò che stava accadendo al castagno.
–
"Stai attenta a non farti imbrogliare!" le disse l’uomo,
"Sono tutti furbi! Si terranno il castagno e tu non vedrai una lira. Se
vuoi manderò al tuo paese una persona che ti darà il giusto per quell’albero."
Veramente nessuno capiva Olga. Sembrava che il denaro fosse l’ unica
medicina per ogni problema: l’ importante era determinare il giusto
dosaggio. Di questo, però, Olga quel giorno aveva ricevuto un piccolo
assaggio. Entrò assieme all’uomo nell’edificio e si mise in attesa.
Camminò a lungo avanti ed indietro in quel piccolo corridoio, finché uscì
un guardia e le chiese cosa volesse. Olga spiegò il caso, ma l’ unica
risposta che ottenne era che ormai gli uffici erano chiusi e che avrebbe
dovuto ritornare il giorno seguente, assieme al padre che era il proprietario
del fondo sul quale si trovava l' albero.
–
"Ma quante volte devo
ripeterle che il castagno non è nella proprietà di mio padre", disse
Olga con tono irritato.
–
"Ma allora di che ti preoccupi", le rispose la guardia, "tu non
hai alcun danno."
–
"Ma quel castagno non deve
essere abbattuto, perché é bello, grande ed anche intelligente. Lo ha detto
pure la mia maestra che voi proteggete gli alberi belli", rispose Olga
con le lacrime agli occhi. L’ uomo si commosse e disse:
–
" Dimmi dove si trova, andremo a controllare". Olga non sapeva come
si chiamava quel luogo, o meglio lo sapeva benissimo, ma nella sua lingua, e
come tanti suoi paesani, provava vergogna a proferire certe parole fuori dalle
sue valli.
–
"Dimmi dove si trova, per
dove si arriva", insistette la guardia. Olga avrebbe voluto dirgli:
" Lasciato il mio paese ci si dirige verso il Klanaz, poi verso il
Podbriah; si arriva nel Plaz, si oltrepassa il Jessenovik ed in quel prato c’
è il castagno", ma rispose solamente :
–
"E’ un nome nostro che tu non capisci!"
–
"Attendi un attimo" disse la guardia, e si allontanò. Subito dopo l’
uomo rientrò accompagnato da un'altra guardia.
–
"Ecco, a lui puoi dire tutto
nella tua lingua, tra voi vi capite"
La seconda guardia iniziò a parlare con Olga ed in breve i due si
intesero.
–
"Lunedì mattina ci troveremo al tuo paese ed andremo assieme a vedere l’
albero", le promise la guardia. I due si salutarono. Olga ringraziò e
ritornò veloce verso casa. Tanta era la voglia di portare la buona notizia al
castagno che non sentiva né la salita del ritorno, né il vento contrario
che soffiava sempre da quelle valli. Anche la piccola disavventura alla quale
era andata incontro in quella piazza, sembrava un ricordo lontano.
Raccontò tutto l’accaduto alla mamma e le chiese il permesso per assentarsi
da scuola quando sarebbe arrivata la guardia. La madre si adirò e la
rimproverò severamente per ciò che aveva fatto:
–
"Che cos’è che ti attira verso quel luogo maledetto?" le chiese,
"Quello è un posto che non mi piace e non voglio che tu ci ritorni
ancora."
–
"Ancora una volta, ancora una volta. Ho già preso l’appuntamento con la
guardia."
–
"Hai fatto malissimo! Ti
recherai a scuola, e se la guardia arriverà, la accompagnerà il papà, se
avrà tempo a disposizione". Il giorno del rientro a scuola la
maestra notò qualcosa di diverso in Olga, qualcosa che la turbava.
–
"Olga, ti vedo pensierosa. E’ tutta la mattina che guardi fuori dalla
finestra, verso la montagna. Che cosa ti preoccupa?"
–
"Signora maestra, oggi è una bella giornata, desidererei tanto che
andassimo a fare una passeggiata." Tutta la classe approvò ed applaudì
Olga per la geniale idea.
–
"Va bene!" disse la maestra, "Mi è venuta una forte emicrania;
un poco di aria buona gioverà pure a me." Durante la passeggiata lo
sguardo di Olga era rivolto in continuazione verso la montagna. Ad un certo
momento Olga corse incontro alla maestra gridando:
–
"Signora maestra! Signora maestra! Questa è veramente una bella
giornata."
–
"Ma che cosa ti
accade? Un momento fa sembravi disperata ed
ora sei rinata. Ah! Giovasse quest’aria anche alla mia emicrania!" Olga
non aveva detto nulla alla maestra del castagno, dei suoi racconti , delle
ultime vicende, perché aveva capito che il castagno non vedeva di buon occhio
le maestre, ma ora era felice perché aveva notato in lontananza che le sue
fronde continuavano a dominare il bosco. Terminata la scuola si recò
direttamente nel bosco. Il paesaggio in quel luogo era cambiato completamente
ed Olga stentava ad orientarsi. Il sentiero era ormai invisibile. Proseguì tra una selva di tronchi e di rami sparsi qua e là, ma quell’albero era come un faro: bastava dirigersi verso di lui. Giunta sul posto,
vide che attorno al castagno erano stati abbattuti tutti gli alberi.
–
"Grazie," le disse il castagno, "mi hai salvato la vita".
–
"Scusami, ma mia mamma mi ha impedito di venire a
trovarti, ed io sono stata in ansia per la tua sorte."
–
"E’ andato tutto bene. Dalle parole di quegli uomini ho capito quello
che hai fatto per me. Ti sono veramente grato. Qualsiasi cosa mi chiederai
verrà fatta."
–
"Veramente siamo pari, anche tu mi salvasti la vita beccandoti tutte
quelle pallottole pur di proteggermi."
–
"Quello fu ben poco, la mia scorza è sufficientemente resistente anche
se ho dovuto soffrire. Sai, quegli uomini hanno parlato a lungo tra loro;
forse la mia sorte è solo rinviata. L’ ingegnere faceva vedere le sue carte
e la guardia gliene mostrava delle altre. Alla fine ho sentito che avrebbero
spedito tutto a Roma. Come vedi anch’io devo sottostare al volere di
Roma."
–
"In questo caso stai tranquillo, la decisione andrà molto per le
lunghe"
–
"Temo di avere poca vita davanti a me, del resto hanno abbattuto tutti
gli alberi che mi circondavano, sai … li consideravo miei figli e se mi
verrai a mancare pure tu, ben venga quella maledetta lama."
–
"Oggi, mentre salivo quassù avevo il cuore pieno di gioia nel saperti
vivo, ora mi hai riempito di tristezza. Non ti abbandonerò mai, verrò a
trovarti anche contro il volere di mia mamma. Lei odia te e questo posto.
Spiegami perché."
–
"Olga, non chiedermi questo. Avrei preferito affrontare quella lama
piuttosto che risponderti"
–
"No! Poco fa hai promesso
che avresti fatto qualsiasi cosa ti avessi chiesto. Ora parla!" Stavolta
il castagno non si chiuse nel solito silenzio e disse ad Olga:
–
"Non vorrei perdere anche
te, non vorrei che tu mi odiassi."
–
"Non accadrà! Sono pronta a tutto!"
–
"Vedi, quando ti dissi che qui avevo visto la vita nascere e morire, mi
riferivo a te."
–
"E’ qui che sono nata?" chiese Olga sorpresa.
–
"Beh..., non proprio."
–
"Qui tua mamma ha conosciuto tuo papà."
–
"Si sono incontrati qui?"
–
"Veramente, non so dove si siano incontrati… conosciuti…
qui ti hanno generata!"
–
"E qui dovrò morire?"
–
"No, non tu, il lutto c’è gia stato."
–
"E chi
allora?"
–
"Il tuo babbo."
–
"Ma se è ancora vivo!" disse Olga con rabbia.
–
"Siediti", le disse il castagno tirandola appresso con un ramo.
"Tua mamma è stata una donna bellissima, e lo è tuttora. Un giovane
delle valli si innamorò di lei, ma tua mamma non lo corrispose. Quel ragazzo
era talmente invaghito che un giorno perse la testa; pensò che se l’ avesse
costretta ad avere un figlio, lei l’avrebbe poi sposato. Dopo quella
violenza, si pentì e si tolse la vita, appendendosi ad un mio ramo. Tua mamma
ti diede un altro papà che ti vuole molto bene, credimi." Olga voltò le
spalle al castagno scoppiando in un pianto dirotto e fuggì da quel luogo.
La novella finisce qui, come pure la storia, perché da quel momento il castagno, sconvolto per il dolore che le sue parole avevano procurato ad Olga, decise che non avrebbe parlato più. Sentendo la sua fine ormai vicina, volle fare testamento, e non avendo nulla da donare, provò a chiedere. Chiese che nessun castagno parlasse più in futuro, in quanto le sue parole avevano procurato solo dolore a chi le aveva udite. Tutti gli alberi rispettarono quella disposizione, perché era giunta dal più grande e più vecchio castagno mai esistito prima d’allora in quelle valli. Olga non serbò odio verso il suo albero anche se si ripromise di non vederlo più. Non disse nulla di ciò cha aveva saputo ai suoi genitori, anzi, crebbe l'amore verso colui che l'aveva presa come figlia. Quell'esperienza temprò il suo carattere e le diede la forza per affrontare le asperità che la vita le avrebbe preparato. Dovette lasciare queste valli, dapprima per completare gli studi, poi, per svolgere il suo lavoro. Dopo molti anni tornò al suo paese e decise di recarsi in quel prato dove aveva parlato molte volte con il castagno. Questa volta non più sola, ma assieme a sua figlia. Si incamminarono verso la montagna ormai priva di sentieri. I castagni non difendevano più i prati dal bosco! Olga proseguì nel suo cammino facendosi strada con un bastone tra l'erba alta ed i rovi. Voleva portare la sua figlia nel luogo dove il nonno aveva esalato l'ultimo respiro. Attraversarono i pochi prati rimasti integri e si inoltrarono nel bosco. Dovettero scavalcare molti tronchi di alberi che la vecchiaia e le intemperie avevano abbattuto. Erano proprio i rami enormi dei castagni a creare le maggiori difficoltà in quel cammino. In quel momento Olga fu presa da un presentimento che l'angosciava. Chissà se avrebbe trovato ancora in vita il suo castagno?
- "Mamma! Mamma! Ho trovato una castagna!" urlò la bimba infilandola nella tasca della giacca.
- "Lascia perdere! Quello è un frutto selvatico, piccolo e privo di sapore. Se saremo fortunati troveremo un enorme castagno con delle castagne grosse come un pugno."
-"Eccolo!" disse la bimba.
- "No! Non è quello...o forse si! " La donna osservò attentamente attorno a sé; scrutò attraverso i rami degli alberi che circondavano quell'angusta radura. Cercava una linea elettrica che non trovava! Poi disse:
- "Avviciniamoci!" I due giunsero ai piedi del grande albero. Olga lo guardò in silenzio, incerta e confusa.
- "Ma dove sono la castagne?" chiese la figlia.
-"Questo albero non da più frutti. E' vecchio e ammalato. Vieni qui! Recitiamo una preghiera."
- "Per chi?"
- "Per questo albero che sta morendo", rispose la madre imbarazzata.
- "Dobbiamo dire molte preghiere", disse sottovece la bimba, "questo bosco sembra un cimitero."
Il vecchio castagno osservava in silenzio la coppia ai suoi piedi, memore della promessa fatta molti anni prima. Poi, vide Olga girargli le spalle e scendere verso valle. Solo la bimba si era attardata a frugare con un bastone tra le poche foglie secche cadute su quel prato. Come tutti i vecchi, pure lui si lasciò sopraffare dal sentimento. Con un grande sforzo cercò di far vibrare i suoi rami secchi e irrigiditi, finché ne uscì qualche parola tremolante. La bimba alzò gli occhi verso l'albero, osservò un attimo attorno spaventata, poi raggiunse velocemente la mamma. Il castagno cercò invano di chiamarla, ma tutto fu inutile: quella bimba non lo comprendeva. Parlava un'altra lingua!